Da parecchi anni nella scuola si fa un gran parlare di dislessia,
ultimamente nella dizione allargata di "disturbi specifici
dell'apprendimento" o DSA, secondo la tendenza a classificare con sigle
burocratiche perfino le caratteristiche individuali, arrivando infine a
generare anche la categoria dei BES "bisogni educativi speciali".
Questo dibattito ha avuto il merito di tenere costantemente alte la sensibilità
e l'attenzione sui problemi di apprendimento ed il fenomeno è senz'altro
positivo, come tutte le operazioni culturali che si pongono l'obiettivo di
migliorare le conoscenze e l'impegno dei docenti a favore dei propri alunni, ma
comporta anche dei rischi.
Infatti il grande ombrello DSA/BES copre ormai una tale quantità e
varietà di comportamenti e situazioni da far pensare che in qualche caso serva
soltanto a dare un nome a ciò che non si capisce, che non siamo in grado di
controllare e, nel caso, accettare. E di conseguenza il numero degli alunni e
dei comportamenti da segnalare è in continua crescita; si è infatti invertita
la tendenza delle famiglie a minimizzare i problemi dei propri figli: un tempo
le certificazioni di handicap, anche evidenti, trovavano la comprensibile
resistenza dei genitori, adesso è facile che ad un alunno semplicemente
distratto venga attribuita la diagnosi di "disturbo dell'attenzione"
e quindi si richieda all'insegnante indulgenza e interventi mirati. Oltre
evidentemente un accurato PDP, "piano didattico personalizzato".
Per un comune insegnante è così diventato faticoso orientarsi e
tenersi aggiornato nell'oceano dei disturbi specifici, e forse alcune diagnosi
finiscono per "medicalizzare" qualcosa che potrebbe essere più tranquillamente
affrontato nel normale contesto scolastico e familiare.
Per quel che mi riguarda la dislessia, quella senza equivoci, che
non ha bisogno di screening per essere accertata, sta tutta nello sguardo
deluso e venato di rimprovero che mi rivolse Carlotta, parecchi anni fa,
prima che i suoi personalissimi processi
di pensiero fossero definiti da una sigla da specialisti o da circolari
ministeriali.
Credo fossimo in terza elementare e avevo dato
il compito di eseguire un disegno su un foglietto di piccole dimensioni. In
piedi di fronte ad un tavolo piegavo dei fogli A4 a metà e li strappavo lungo la piegatura,
consegnandoli, uno ciascuno, ai ragazzi. Carlotta era l'ultima della fila e mi
era rimasto un solo foglio, lo divisi e lasciai che una delle metà cadesse sul tavolo.
"Prendilo." Dissi
Carlotta rimase immobile, in attesa, gli occhi fissi nei miei.
"Prendilo!" Dissi di nuovo, sorridendo.
Il suo sguardo si fece solo più perplesso.
"Lo vuoi prendere!!" Insistetti, in tono più pressante.
"Ma tu non me lo dai." Rispose lei, abbassando lo sguardo.
"Certo che te l'ho dato!" Tono secco, questa volta. Quel
che non si capisce irrita.
"No, tu non me lo hai dato." Accenno di broncio,
delusione...
"Ma non lo vedi che è lì sul tavolo!!"
Il tono voleva essere dimostrativo, ma l'evidente sotto testo era:
"Possibile che crei sempre problemi, anche di fronte alle cose
più semplici?"
Carlotta alzò gli occhi dove cominciavano a premere le lacrime, indicò
la metà del foglio che tenevo ancora in mano e disse con voce bassa: "Ma
io voglio quello e tu non me lo dai."
Per un attimo capii quanto doveva essere difficile guardare il mondo
con occhi che vedono quello che agli altri resta nascosto.
Carlotta non riconosceva alcuna parentela e somiglianza tra il foglio
sul tavolo e quello che avevo in mano, lei si aspettava, forse per ragioni
affettive, ma sicuramente per un ragionamento a suo modo logico, che le
consegnassi personalmente, da mano a mano, quello su cui disegnare; l'unico che
avesse le caratteristiche per essere il "suo" foglio era quello che
mi ostinavo a tenere stretto.
E in effetti quello non glielo avevo dato.
Possiamo giudicare questo ragionamento "sbagliato" solo
perché diverso da quelli che comunemente, direi banalmente, sono messi in atto
dalla maggioranza delle persone?
La domanda è retorica e la risposta ovviamente negativa. Eppure
nella realtà noi condanniamo queste risposte con il semplice non capirle, con
il ritenerle illogiche, irrazionali, inutili, intralcianti.
Quante volte, ogni giorno, a scuola e a casa, Carlotta sarà stata
respinta e ferita dall'impazienza, dalla fretta, dalla stizza, dalla
rassegnazione, che hanno impedito agli altri la comprensione di esigenze e
ragionamenti che a lei dovevano sembrare chiari, evidenti, normali? E quanti di
questi micro traumi può sopportare una persona prima di arrendersi, ed arrivare
alla conclusione di essere definitivamente diversa, "sbagliata"?
L'episodio vissuto con Carlotta mi è tornato in mente in seguito ad
uno, quasi analogo, accaduto negli ultimi giorni, protagonista Corso, un
alunno sfuggito a suo tempo per un soffio (fortunatamente?) alle maglie di uno
screening anti dislessia.
Somministro a tutta la classe una serie di schede di analisi
grammaticale a difficoltà crescente: una frase, inizialmente minima, si ripete
in ogni scheda con l'aggiunta progressiva di altre parole che la ampliano e
complicano.
Ovviamente, dopo averle studiate un po', i ragazzi trovano
facilmente il modo di velocizzare l'esecuzione delle schede, ricopiando nelle
successive l'analisi delle parole che erano risultate precedentemente corrette.
Corso invece, dopo un avvio tranquillo, mostra perplessità,
chiedendomi spesso aiuto e incorrendo in errori che non riesco a capire.
Sapendo che aveva eseguito correttamente la prima scheda, come
succede agli insegnanti che hanno fretta di raggiungere il risultato, gli svelo
il trucco; lui, essendo un alunno rispettoso ed ubbidiente accetta il
consiglio, ma dal suo sguardo capisco che lo ritiene un'assurdità incomprensibile...
Dopo poco mi riporta la scheda. Completamente sbagliata. Non trattengo
un gesto di insofferenza: "Ma come! Te l'ho appena spiegato che per le
parole ripetute devi solo ricopiare le definizioni della prima scheda,
possibile che tu non capisca un discorso così semplice?"
Lui annuisce perché non mi contraddirebbe mai, ma gli occhi gli
restano vuoti.
La classe intanto procede come un treno, divorano le schede, dico ad Corso di tornare a posto e sbrigarsi. Obbedisce. Quando sollevo lo sguardo e
lo vedo, dietro lo schermo degli altri che mi si affollano intorno per la correzione,
è immobile davanti al foglio, con gli occhi gonfi di pianto. Sospiro
spazientito, mi avvicino, ma so già cosa troverò sulla sua scheda: non ci ha
nemmeno appoggiato la penna.
Mi chino accanto a lui. "Cosa c'è che non va Corso, cerca di
spiegarmelo, non riesco a capirlo. Se nuovo è un aggettivo qualificativo
nella prima scheda lo sarà anche nella seconda, no?"
Mi guarda dietro i lucciconi: "Perché? Se cambiano scheda anche
le parole possono cambiare..."
Reprimo una risata. "Come fai a dire una cosa del genere, la
grammatica può forse cambiare nel tempo, ma non dipende dalla collocazione
nello spazio delle parole."
E lui, serafico: "Eppure tu dici che le persone non restano le
stesse, uno può essere tranquillo vicino ad un compagno e agitato insieme a un
altro. Allora perché le parole non possono fare lo stesso?"
Già, perché? Come si fa a rispondere ad una domanda del genere?
Adesso Carlotta è una giovane donna molto attiva sui social, dove gli
errori dovuti ad una "dislessia severa" trovano piena nazionalità ed
accettazione nella libera sintassi dei gerghi giovanili, Corso è ancora, per
poco, uno dei miei alunni più singolari. Ambedue mi hanno insegnato che alla
lunga i dislessici (o presunti tali) trovano sempre una loro strada, mai
banale. E mi hanno anche fatto capire la
differenza tra gli "errori" di un alunno che non ha ancora maturato
un adeguato livello di apprendimento e quelli di un ipotetico DSA: nel primo
caso di tratta di un deficit da colmare nella lettura del reale, nel secondo di
una maniera diversa, spesso creativa, sempre sorprendente, di sovvertirne le
leggi. Nostro compito dovrebbe essere accettare il rischio di seguirli su
queste strade inconsuete, dare
cittadinanza alle loro idee, con l'obiettivo magari di riportarli su
sentieri più domestici, senza però delegittimare le loro scoperte e
riconoscendole anzi come dei bellissimi regali.
La dislessia in sé contempla intelligenza e frustrazione e percorsi
di pensiero alternativi al consueto, solo con grande fatica alcuni ragazzi riescono
a mettere ordine nella giungla delle lettere confuse, che a voce formano parole
di senso compiuto e su un foglio bianco no, come dovessero immaginare con un
occhio bendato e un dito nell'altro.
Dall'esterno possiamo osservare i loro percorsi di pensiero
personali, spesso grippati come aquile a cui si chieda di scavare gallerie,
hanno bisogno di tempo e fiducia per aprirsi una nuova strada nella roccia
attraverso cui giungere alla medesima destinazione di chi non fa fatica, spesso
si arenano come le balene: difficile nella giungla delle lettere mescolate
senza un prima e un dopo riuscire a discriminare le parole e magari farne anche
classificazione con funzione grammaticale.
Nostro compito sarà prendere la pala e scavare con loro la roccia, perché solo quella
può essere la loro strada. Se la vediamo.
Ma queste, ovviamente, sono solo le riflessioni di un insegnante
irrimediabilmente vintage, che ritiene la categoria dei BES talmente
onnicomprensiva da dover includere a pieno titolo anche i futuri vincitori del
premio Nobel.
Paolo Scopetani