lunedì 26 novembre 2018

Nomina sunt consequentia rerum, ovvero memorie di un maestro per caso



Sono stato chiamato maestro per la prima volta a Bagno a Ripoli, nel novembre del 1975, quando gli istituti comprensivi si chiamavano circoli didattici.

Il circolo è una figura simpatica, egualitaria e accogliente; l’istituto, anche se comprensivo, richiama alla memoria una struttura formale, se non costrittiva.

Avevo nove anni più degli alunni che mi scrutavano con curiosità e non si può dire che fossi arrivato fin lì seguendo una vocazione.
Più prosaicamente accettai la prima supplenza per seguire una ragazza che mi piaceva parecchio; lei prese poi altre strade, in compenso mi aveva portato nel Paese dei Balocchi e fatto conoscere Marcello Trentanove, un Mangiafoco capace di incatenarmi alla "sua scuola" con l'eleganza dei congiuntivi messi al punto giusto.

Ancora non lo sapevo, ma nella "Libera Repubblica di Bagno a Ripoli", come ebbe a definirla il provveditore dell'epoca, era in corso una rivoluzione tanto gentile quanto radicale, ed io ci inciampai proprio quando stava vivendo il suo momento più esaltante.
Negli anni precedenti Marcello (l'ho sempre sentito chiamare solo così, da tutti, quasi che il suo nome fosse un titolo e non esistessero altri Marcello con i quali confonderlo) aveva raccolto intorno a sé un gruppo di giovani insegnanti, entusiasti e preparati, per costruire, primo in Italia, una scuola a "tempo pieno".
Quando mi affacciai da quelle parti scoprii una comunità di famiglie, operatori scolastici, studiosi, amministratori, associazioni, semplici cittadini, che aveva al suo centro la "scuola" come motore culturale e legame emotivo, luogo degli apprendimenti e degli affetti, tempo del sapere e del gioco.
Una vera, colorata "res publica", il sarcasmo del provveditore Baldassarre Gullotta aveva involontariamente colto nel segno.

Il provveditore era “colui che doveva provvedere”, il nome sottintendeva un ruolo provvidenziale, e se era il caso potevi cercarlo per chiedergli conto, andare sotto le sue finestre e contestarlo anche. Oggi le sue funzioni sono state avocate dall’U.S.P, dall’U.S.R. dal MIUR, dall’INDIRE come si può rapportarsi con sigle lontane e in frenetico mutamento?

Le radici culturali che sottintendevano le scelte didattiche del circolo erano vastissime, il dibattito vivace, le occasioni di formazione continue. Ma io, capitato lì quasi per caso, rimasi abbagliato prima di tutto dal divertimento, dall'allegria, dall'informalità, dalla passione, dall'energia con cui le "equipe" degli insegnanti lavoravano.

Marcello era il nostro direttore didattico e "nomen omen".

Il direttore era colui che dava la direzione, il timoniere che vedeva più lontano e sapeva dove arrivare. Oggi li hanno sostituiti con i dirigenti scolastici, una definizione che sembra richiamare qualcuno che dirige il traffico delle pratiche sulla propria scrivania.
Quando Marcello mi accompagnò nella classe di cui mi diede la responsabilità per un intero anno colse perfettamente l’ansia che mi prese nel varcare la porta. Si fermò appena un attimo, mi guardò dritto negli occhi e disse soltanto:

...impareranno malgrado noi...”

Non ci fu bisogno d’altro. La leggerezza e la fiducia che mi regalò con quella “picciola orazione” non mi hanno più abbandonato. incominciava un’avventura che non potevo immaginare migliore, così divertente che al momento di riscuotere lo stipendio dovevo vincere un senso di sorpresa: "...ma come, mi pagano anche?"

Quali erano le componenti che rendevano quel tipo di scuola così attraente da provocarmi un imprinting indelebile? Qual è la ragione che mi fece restare, per provare a diventare davvero un maestro?
Pensandoci ora, ma al momento non mi feci molte domande, ci sono almeno due motivi che ne comprendono molti altri.
La sensazione di far parte di un movimento capace di produrre libertà e cambiare il mondo a partire dalla scuola, il luogo dove la vita cresce, mi faceva sentire importante.
L'idea di poterlo fare con un gruppo di amici, praticando la fantasia, la curiosità, il gioco, l'intelligenza, la tenerezza, mi rendeva felice.
Giovani, importanti e felici. Si poteva chiedere di più?

Certo che si poteva, per rendere tutto più appassionante ci voleva un nemico, potentissimo, accampato sotto il nostro stesso tetto: la scuola tradizionale, quella della sola mattina, che tutti avevamo frequentato e continuava ad essere in Italia un modello praticamente unico.
Il circolo didattico di Bagno a Ripoli era infatti spaccato a metà tra le variopinte classi a tempo pieno e quelle tradizionali, con i ragazzi inappuntabili nei loro grembiuli forniti di regolamentari fiocchi.
L'inevitabile rivalità all'interno del gruppo dei docenti aggiungeva sale alle nostre giornate e infiammava i collegi dei docenti.

Campione indiscusso della "vecchia scuola" era la maestra Tomasi Néra Pacileo, maestosa, appesantita dall'età, sempre drappeggiata in vestiti di seta nera. La lentezza faticosa con cui attraversava i corridoi della scuola aggiungeva, anziché togliere, regalità al suo incedere. Passava agitando mollemente un ventaglio e, senza posare lo sguardo su nessuno, declamava con nonchalanche endecasillabi danteschi. Quando incontrava un militante del tempo pieno dimostrava una particolare predilezione per quelli dedicati agli ignavi: “non ti curar di lor, ma guarda e passa”.
La sua cattedra era l'unica ad aver mantenuto la pedana; tutte le altre, ridipinte di colori vivaci, erano diventate tavoli per la scuola dell'infanzia.
Nèra, dopo essersi lentamente issata sulla pedana e accomodata sulla sedia, prendeva a dirigere la sua scolaresca come un'ape regina potrebbe dirigere un'arnia.
Gli alunni, disposti nelle fila regolari dei banchi, sembravano legati a lei da una ragnatela invisibile (che fosse un ragno invece di un'ape?). A cadenze regolari si alzavano trasformandosi in un corteo di diligenti formiche pronte a consegnare il proprio raccolto alla matriarca (formica regina?). Lei rimaneva al centro, imperturbabile, a dispensare con la stessa serenità premi e castighi in forma di voti inappellabili.
Rappresentava l'esatto contrario dei nostri ideali e del nostro agire, ma affacciandosi alla sua classe era difficile non riconoscerle una evidente grandezza: come riusciva a mantenere un controllo così completo sui ragazzi? Con quale trucco li rendeva immobili e silenziosi? Le ritmiche giaculatorie che filtravano dietro la porta del suo regno erano lezioni o incantesimi? (Che fosse una maga?).
Di sicuro funzionavano perché i risultati scolastici della maggior parte dei suoi allievi erano ottimi, se non eccellenti.

Poi le capitò di ammalarsi e per una settimana toccò a me sostituirla. Ebbi le chiavi del sancta sanctorum, ma non quelle del cassetto dove teneva accuratamente custoditi registro, compiti, schede, programmi di lavoro, guide... e chissà sa quali altri segreti sortilegi.
Mi sedetti dietro una cattedra e assaporai la vertigine del potere assoluto. I ragazzi mi guardavano inespressivi, anch'io non sapevo cosa dirgli e ci volle poco a capire che in quel ruolo non ero credibile.
Scesi e mi misi a girare per i banchi controllando da vicino il loro lavoro, cercai di movimentare le lezioni, introdussi qualche timido cambiamento nell'ordine prestabilito delle loro mattine, li portai addirittura in giardino. Ma non credo di aver inciso sull'idea che si erano fatti della scuola o di avergli davvero mostrato una possibile alternativa. Anche se ne avessi avuto le capacità (e non le avevo) non mi sarebbe bastato il tempo, e la maestra Tomasi Néra Pacileo era persona da far tremare i polsi a gente molto più tosta di un supplente alle prime esperienze.
Ma una piccola grande vittoria la riportai, e ne fui meschinamente orgoglioso.
C'era una bambina in uno degli ultimi banchi con il quaderno pieno di errori e parole illeggibili. Notai che cercando di copiare dalla lavagna strizzava leggermente gli occhi, le chiesi se vedeva quello che avevo scritto, lei rispose di sì, troppo precipitosamente.
Con una scusa le cambiai posto, mettendola nel banco immediatamente sotto alla lavagna.
Molti errori sparirono, la grafia si fece più chiara.
All'uscita chiamai la sua mamma e con l'impudenza della gioventù le dissi che doveva portare la figlia a fare degli occhiali.
Lei mi guardò con un inizio irritazione: "La maestra non mi ha detto nulla!"
"Strano, io me ne sono accorto subito!" Vanesio e insinuante.
Una settimana dopo vidi la bambina indossare con grazia un paio di occhiali con la montatura di celluloide rosa e scoprii che la maestra Pacileo le aveva anche fatto guadagnare qualche posto nella fila dei banchi.

Avrei dovuto inorgoglirmi, ma in qualche modo sentivo che sarebbe stato sbagliato, infatti non feci parola dell'accaduto a Marcello.
Adesso so perché, e mi sembra di sentirlo:

"...hai nutrito solo il tuo narcisismo e per farlo hai screditato una collega di fronte ai genitori. Néra è anziana e ci vede pochissimo, dovevi dire a lei quello di cui ti eri accorto, e stai sicuro che non si sarebbe appropriata di nessun merito. Anzi ti avrebbe stimato un po' di più, forse saresti passato dal girone degli ignavi al primo circolo del Purgatorio..."

Il riconoscimento dei meriti di ciascuno non può passare dal discredito gettato su altri.
Questo è uno degli innumerevoli lasciti di Marcello, che credo non abbia mai scritto i suoi precetti, li ha solo incessantemente praticati.
È stato un intellettuale capace di finissime operazioni di pensiero, ma ha sempre privilegiato l'azione e i rapporti umani, senza i quali il pensiero è niente:

...non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all'amore il resto è niente...”


Anche per questo decisi di seguirlo quando, alcuni anni dopo il circolo di Bagno a Ripoli si divise e lui scelse di rimanere nella scuola del capoluogo.
Veramente avevo pensato di trattenermi in collina, ma quando scesi in direzione per sottoscrivere la domanda di trasferimento trovai due nuove segretarie. Era estate e una aveva una camicetta leggera… Mi accorsi che Marcello era entrato nella stanza solo quando era già molto vicino, il suo passo aveva la leggerezza di un gatto, sorrideva seguendo il mio sguardo.

Paolo Scopetani




lunedì 23 aprile 2018

Lezioni di piano 3




Oggi si fa storia.
Nel fine settimana i ragazzi hanno intervistato i genitori, chiedendogli quali fossero per loro gli eventi storici più importanti degli ultimi 50 anni; adesso si tratta di selezionare alcune immagini significative di questi avvenimenti per inserirle nella linea del tempo preparata in precedenza.
Appena distribuisco gli Ipad alle coppie, o ai terzetti, di alunni, tutti si tuffano nell'oceano del web e gli schizzi, come le voci, arrivano al soffitto ed escono dalle finestre della classe.
Scilla si distacca presto dai suoi compagni e con un'espressione di assoluto candore mi chiede: “Cosa devo fare?”
È naturale, In fondo ho passato solo un quarto d'ora a spiegare al gruppo il compito, gli strumenti, i modi...
Respiro a fondo.
“Scilla di quale avvenimento ti hanno parlato i tuoi genitori?”
“Quando?”
“Portami il tuo fascicolo di storia...”
Sguardo al cielo, dito su una guancia, espressione pensierosa. “Forse è nello zaino.”
“Ecco, forse è meglio se vai a vedere...”
Era davvero nello zaino, nell'intervista, che per fortuna era scritta, i genitori di Scilla hanno indicato la liberazione dal carcere di Nelson Mandela.
“Ecco vedi! Vai nel tuo gruppo e insieme a loro cerca le immagini che ti piacciono di più di questo personaggio, di Nelson Mandela...”
O vediamo se adesso inizia a lavorare, penso.
Passato il tempo stabilito raccolgo le immagini selezionate e tra quelle della caduta del muro di Berlino, dell'alluvione di Firenze, delle stragi di mafia, del mondiale di Spagna e di decine di altri avvenimenti, perlopiù luttuosi, scopro quelle della battaglia navale di Trafalgar.
“E queste che c'entrano?” chiedo più contrariato che incuriosito.
Scilla è il ritratto dell'innocenza. “Sono le immagini di Nelson.”
Giusto, di Orazio Nelson.

Mi viene da ridere e approfitto dell'equivoco per parlare dei rischi di errore nelle ricerche su internet e sui modi per evitarli o scoprirli.
“Orazio Nelson e Nelson Mandela hanno vissuto in epoche diverse e in paesi lontani. Tutti e due hanno combattuto, ma per cause e con strumenti diversi...”
Mi soffermo sulla lotta di Mandela per ottenere la fine dell'apartheid e dopo varie domande concludo spiegando che lui non perseguiva la superiorità dei neri sui bianchi, ma l'uguaglianza dei diritti e l'equilibrio tra i due gruppi di popolazione.
I ragazzi si mostrano attenti e curiosi, credo abbiano capito. Rinuncio comunque a un'immediata verifica, soprattutto su Scilla.

Dopo l'intervallo ci mescoliamo con i compagni di prima per leggere: i ragazzi più grandi, spiegano ai più piccoli i segreti della lettura presentandogli e leggendogli libri che gli sono piaciuti.
Scilla è nel mio gruppo, la vedo molto impegnata con il suo tutorato su un libro di argomento marino e lascio che vadano avanti nella lettura autonomamente.
Quando vedo che l'interesse delle coppie inizia a diminuire li chiamo attorno ad un tavolo per la discussione collettiva.
“Cosa avete scoperto dalle letture di oggi?”
Scilla alza la mano per prima.
“Che gli squali fanno come Nelson Mandela!”
La mia espressione di meraviglia non la scuote minimamente.
“Spiegami un po' perchè?”
“Perché qui c'è scritto che loro mangiano i pesci vecchi e malati, così non scoppiano epidemie nel mare. Poi impediscono che le razze di pesci diventano troppo numerose, sennò distruggono l'ambiente... insomma vogliono l'equilibrio, proprio come Nelson Mandela.”
E mi guarda come un avvocato dopo un'arringa vincente.
Mi mancano le parole, non solo Scilla ha dimostrato di essere stata attenta alla lezione di storia, ma è riuscita a collegare quanto appreso ad un contesto di apprendimento del tutto diverso. Per quanto l'abbia fatto attraverso un'associazione spericolata ed elaborando una metafora forse irrispettosa del grande leader sudafricano.
Ma credo che anche lui li riterrebbe dettagli del tutto irrilevanti.
Scilla interpreta in maniera positiva il mio silenzio.
“Maestro vuol dire che sto imparando?”
Come sempre non riesco a capire se mi stia sottilmente prendendo in giro.
“No, Scilla, vuol dire che io sto imparando.”
Resta perplessa, spero le sia venuto il dubbio che la sto sottilmente prendendo in giro.

Paolo Scopetani

lunedì 29 gennaio 2018

Lezioni di piano 2


Prima di tutto grazie.
I numerosi contatti e i commenti suscitati da “Lezioni di piano” mi hanno sorpreso e gratificato ben oltre i meriti del testo stesso, Ed è senz'altro riduttivo chiamarli commenti, in effetti si tratta di veri e propri articoli, completi, profondi, suggestivi, scritti con competenza e passione.
Tutti hanno sollecitato quello che dovrebbe essere l'unico orgoglio di un maestro: vedersi superare da coloro a cui si rivolge, e con tutti sono d'accordo (anche se alcuni si pongono in netta giustapposizione e danno letture del fenomeno apparentemente opposte).
Questo non fa che confermare che viviamo “strani tempi” e che “la confusione è grande sotto il cielo”. Quindi “la situazione è favorevole”.
Meno male perché a scuola, e sotto, sopra e tutto intorno, c'è un gran bisogno di ottimismo, piacevolezza, curiosità e fiducia; compito difficile, che visto il contesto sembrerebbe un passaggio di quarto grado, ma potrebbe essere che brancoliamo nel buio solo perché ci ostiniamo a tenere gli occhi chiusi o forse si tratta di cercare meglio il punto della parete dove qualcuno deve pur aver sistemato l'interruttore della luce!
Come persone, genitori e insegnanti siamo costantemente frustrati da innumerevoli situazioni, non ultima il mancato ascolto che rimproveriamo ai nostri figli/alunni, ma noi con che moneta li ripaghiamo? E cosa significa ascoltare? Di quali azioni è parente e a quali scopi serve davvero l'ascolto?

Da qualche tempo Giuditta viene a scuola di malavoglia, strascica i piedi nel corridoio, la testa inclinata sulla spalla, lo sguardo sfuggente e perso nel vuoto.
Inutile chiederle cos'è che non va, si nasconde dietro un libro e chiude la comunicazione prima ancora di aprirla.
Per qualche tempo l'assedio con domande prima discrete poi pressanti, la blandisco con promesse, la scuoto con minacce (che tutti e due sappiamo non manterrò) la punisco con abbandoni tanto risentiti quanto temporanei; poi ritorno invariabilmente a importunarla con la mia curiosità offesa.
Certo sono interessato a lei, mi dispiace il suo malessere, ma soprattutto mi innervosisce il non capire. Giuditta è una bambina intelligente, pronta, brillante, non ha difficoltà scolastiche né tantomeno relazionali, anche in famiglia non ci sono problemi. Nessuna ragione di disagio.
Allora che cosa la infastidisce tanto?
In fondo le contesto proprio il diritto di essere triste e il non volermene spiegare le ragioni.
Oggi arriviamo insieme davanti alla porta di scuola, entrando la saluto, lei mi risponde con lo stesso broncio assonnato dei giorni precedenti e, forse perché anch'io ho sonno e vorrei fortemente essere altrove, mi scappa un sorriso complice. Lei raddrizza la testa.
Prima di pensarci mi chino e allargo le braccia, dondola come fosse un po' incerta, ma fa due passi e si attacca con slancio al mio collo. Mi alzo e viene su come una piuma. Mentre percorriamo il corridoio verso la classe le mormoro “...che succede?..” ho paura di aver osato troppo “...ora si chiude e non risponde...” Penso.
Invece sussurra qualcosa. “...mi stanno tutti addossso, non mi piace...”
In effetti è la bambina più contesa del gruppo, sempre al centro dei giochi e delle scelte nel lavoro, la compagna ideale per tutti.
“...beh la popolarità ha i suoi lati negativi, ma sarebbe peggio essere ignorata ed esclusa, non credi?...”
“...vorrei nascondermi e che nessuno mi vedesse più, mai più, stare per sempre sola...”
Nel dirlo affonda il viso sulla mia spalla, eppure mi sembra di vederle brillare due lacrime.
Nel suo tono c'è una determinazione così totale ed esclusiva che dà le vertigini. Non posso fare altro che stringerla più forte, quasi che fuori di questo abbraccio l'aspettasse un precipizio.
Al contrario di noi maschietti, prosaicamente relativisti, le donne hanno una pericolosa attrazione per l'assoluto, le piccole donne non fanno eccezione, come si fa a non sentire il bisogno di proteggerle?
Siamo arrivati davanti alla nostra aula e la piuma si è trasformata in piombo.
Mi siedo su un tavolo per continuare a sostenerla, “vuoi che parli io agli altri per chiedergli di lasciarti un po' respirare?”  Pensa solo un attimo, scuote la testa “...macchè!...”
Scende con l'agile imbarazzo dei gattini che sono saliti troppo in alto su un tronco e per la prima volta da giorni la vedo correre verso la porta della classe, protesa in avanti con una spalla più bassa  ginocchia e braccia che mulinano comicamente. È proprio buffa.
“...mercoledì devo lavorare meglio sulla corsa in palestra...”penso.
Entro e la vedo impegnata in una fitta conversazione con Allegra che è arrivata prima di noi.
Ridono di qualcosa che non saprò mai e se lo sapessi sicuramente non capirei. Resto lì a pensare a quello che è appena successo.

Ho capito le ragioni del malessere di Giuditta? No.
L'ho ascoltata? Si.
È servito a sbloccare la situazione? Non lo so, ma non posso/voglio escluderlo.
Di sicuro lei si è improvvisamente distesa e rilassata, dipende dal nostro breve colloquio?
Chi lo sa?
Forse si era semplicemente stancata di fare la “signorina tu mi stufi”. Forse mi ha detto la prima cosa che le è venuta in mente per tacitare le mie noiose indagini. Forse ha avuto paura che parlando con i suoi compagni l'avrei messa in imbarazzo.
Oppure ho trovato l'interruttore e si è accesa la luce, per lei, perchè io sono ancora al buio.
Mi viene in mente che ascoltare non ha alcuna relazione con il capire, magari è più vicino al
com-prendere, se questo verbo deriva etimologicamente da cum-prendere, prendere con sé. Insomma abbracciare. Ed io Giuditta non solo l'ho presa con me ma l'ho anche portata per tutto il corridoio offrendole (e concedendomi) il privilegio di un abbraccio gratis e di uno scambio disinteressato.
Perchè non potrebbe essere questa la ragione del superamento del malumore di Giuditta, qualunque causa avesse? Ed ha qualche importanza che io arrivi a conoscere questa ragione?
È un lunedì uggioso e sono arrivato a scuola senza avere nessuna idea di cosa proporre ai ragazzi, però nel fine settimana sono inciampato in una poesia che parla di abbracci, potrebbe essere un'idea...     

Paolo Scopetani


lunedì 15 gennaio 2018

Lezioni di piano


Cristina non è solo una collega competente e professionale, ma anche la responsabile/ideatrice del nostro progetto di educazione affettiva, e una persona molto accogliente, che ha fatto del capire e aiutare gli altri un mestiere praticato a lungo con passione e intelligenza.
Eppure il suo sguardo è insolitamente disorientato quando la incontro in giardino durante l'intervallo.
“Mi devo sfogare con qualcuno, i bambini non mi ascoltano più, non riesco a farli stare attenti, le parole scivolano su di loro come pioggia sui tetti... spiego più volte le prove, anche ad uno per volta... dicono sempre di aver capito e poi continuano a fare errori incomprensibili...”
Annuisco in silenzio perchè non so cosa dirle, ho il suo stesso problema e a quanto mi risulta anche gli altri colleghi della nostra scuola.
I ragazzi sono svegli, veloci, brillanti e simpatici, senz'altro intelligenti; si mostrano incontenibili nella narrazione delle loro esperienze (e sordi ai racconti altrui) molto competenti nell'esprimere i propri bisogni (e disarmati di fronte alla prospettiva che i compagni ne abbiano di personali) precocemente dialettici nell'affermare i propri punti di vista (e incapaci di prendere in considerazione l'idea che possano essercene altri) capaci di associazioni libere degne di spericolati acrobati (e inadatti a seguire un filo logico elementare nelle discussioni collettive)... Soprattutto appaiono refrattari a qualsiasi tipo di ascolto, legato a consegne o istruzioni di tipo strettamente tecnico/scolastico, impartite dagli insegnanti.
Le conseguenze di questo atteggiamento assumono talvolta contorni di comicità involontaria.
Ad esempio so benissimo che se chiedo di eseguire un'operazione (anche semplice) che preveda vari step, già a metà dell'enunciazione del secondo i pensieri dei bambini stanno galoppando, o volteggiando, lontano... anche se i loro occhi continuano a fissarmi con un'ingannevole luce di benevolenza.
Poi, quando do il via all'esecuzione del compito, si scatena la tempesta delle domande, perlopiù assolutamente non pertinenti, delle azioni illogiche e inefficaci, se non dannose, o del semplice continuare a fare quello che più desiderano, senza porsi il problema di quanto gli è stato appena chiesto.
In una situazione del genere gli insegnanti, per reagire alla frustrazione, sono soliti alzare la voce, visto che non possono alzare le mani, ma il risultato è solo quello di aumentare la confusione, producendo oltretutto danno alla propia immagine, di persone e di educatori.
Meglio allora respirare profondo e andare alla ricerca delle cause del fenomeno.

“ Scilla, ho chiesto a tutti di prendere il fascicolo di italiano, metterci l'ultima scheda fatta, portarlo nello zaino e tornare al proprio posto... mi spieghi allora perchè stai disegnando?”

Alza su di me i suoi incredibili, grandissimi occhi con gli angoli rivolti all'ingiù. È un'impressione sbagliata o in fondo al suo sguardo guizza una piccola luce canzonatoria?
Stiamo così in silenzio a fissarci per alcuni interminabili secondi, non mi risponde, non con le parole almeno, ed alla fine sono io che mi stacco dal muto colloquio.
Probabilmente sbaglio ma la risposta che ho letto in quel lungo imbarazzante sguardo è:
“ Lo hai chiesto a tutti, ma non a me, io sono Scilla, mica tutti!”
O forse il messaggio era ancora più semplice:
“ Sto disegnando perchè ora mi va di farlo!”

Ma queste sono solo proiezioni mie, l'unica sicurezza che mi rimane è la mancanza di un livello basico di comunicazione condiviso. La verità è che io e Scilla parliamo due lingue diverse, senza apparenti punti di contatto.
Qualcosa che a scuola non possiamo permetterci, e allora parto di nuovo alla caccia delle ragioni e delle responsabilità'.
“ ...La digitalizzazione sta cambiando i processi di pensiero della razza umana, siamo di fronte ad una rivoluzione dagli effetti imprevedibili e devastanti. È chiaro che i bambini stiano perdendo le capacità di ascolto: avete visto le famiglie ai tavoli dei ristoranti? Ognuno ipnotizzato dal proprio maledetto display luminoso...”

La tentazione di attribuire tutte le colpe al nuovo Satana tecnologico è forte, ma non voglio cedere troppo facilmente ai miei pregiudizi di insegnante irrimediabilmente vintage e credo che i problemi complessi non abbiano spiegazioni semplici. E tantomeno soluzioni facili. 
Chi propone soluzioni facili nel migliore dei casi è un illuso, nel peggiore un imbroglione, cerchiamo quindi di essere raffinati ed onesti (o di sembrarlo).

“...Forse pretendere che i figli del terzo millennio stiano allineati e coperti come tanti soldatini, senza capirne le ragioni, è una richiesta eccessiva. Noi lo facevamo, loro sono più avanti. Invece di chiedergli un'attenzione acritica sarebbe meglio lavorare sulle motivazioni, proporre le situazioni in maniera problematica, sottoporli a prove autentiche in modo che siano loro stessi a mettere in atto i processi necessari a trovare le vie d'uscita...”

“...Vabbè! Ora non pecchiamo di eccessivo intellettualismo pseudodemocratico... non posso certo indire un'assemblea costituente tutte le volte che Gianni si alza per andare in bagno (per la terza volta nell'ultima mezzora) proprio mentre inizio a spiegare la prova che dovrà eseguire nei 45 minuti di lezione che restano!...”

Il dibattito dentro di me è arrivato a questo punto quando le adenoidi cantilenanti di Tommi interrompono i miei pensieri:
“Maestro stasera esco prima perchè ho il saggio di pianoforte...”
Mi riscuoto e gli accarezzo leggermente la testa.
“ Ah sì? Bravo Tommi! Non sapevo che tu sapessi suonare il pia...”

Gli occhi mi si accendono e forse non è solo la luce che entra dalle orecchie.
Tommi è il bambino più piccolo della classe, non ha ancora 7 anni, un biondino minuscolo, tenerissimo, dispettoso; mai fermo, tranne quando si spenge improvvisamente come sanno fare solo i neonati.
Non sa ancora allacciarsi le scarpe ed ha grossi problemi a trovarsi il naso quando deve soffiarselo, eppure sa già leggere ed eseguire uno spartito di Mozart...
Nell'epoca delle strumentazioni analogiche questo si sarebbe chiamato “mettere il carro avanti ai buoi”. Nell'era digitale non so come potremmo definirlo, ma ho il sospetto che la questione sia collegata all'apparente calo delle capacità attentive delle nuove generazioni.
Dovrò parlarne con Cristina e con gli altri, insieme potremmo tirar fuori qualcosa di buono da questo abbozzo di idea... e voi che ne pensate?
         
Paolo Scopetani