lunedì 26 novembre 2018

Nomina sunt consequentia rerum, ovvero memorie di un maestro per caso



Sono stato chiamato maestro per la prima volta a Bagno a Ripoli, nel novembre del 1975, quando gli istituti comprensivi si chiamavano circoli didattici.

Il circolo è una figura simpatica, egualitaria e accogliente; l’istituto, anche se comprensivo, richiama alla memoria una struttura formale, se non costrittiva.

Avevo nove anni più degli alunni che mi scrutavano con curiosità e non si può dire che fossi arrivato fin lì seguendo una vocazione.
Più prosaicamente accettai la prima supplenza per seguire una ragazza che mi piaceva parecchio; lei prese poi altre strade, in compenso mi aveva portato nel Paese dei Balocchi e fatto conoscere Marcello Trentanove, un Mangiafoco capace di incatenarmi alla "sua scuola" con l'eleganza dei congiuntivi messi al punto giusto.

Ancora non lo sapevo, ma nella "Libera Repubblica di Bagno a Ripoli", come ebbe a definirla il provveditore dell'epoca, era in corso una rivoluzione tanto gentile quanto radicale, ed io ci inciampai proprio quando stava vivendo il suo momento più esaltante.
Negli anni precedenti Marcello (l'ho sempre sentito chiamare solo così, da tutti, quasi che il suo nome fosse un titolo e non esistessero altri Marcello con i quali confonderlo) aveva raccolto intorno a sé un gruppo di giovani insegnanti, entusiasti e preparati, per costruire, primo in Italia, una scuola a "tempo pieno".
Quando mi affacciai da quelle parti scoprii una comunità di famiglie, operatori scolastici, studiosi, amministratori, associazioni, semplici cittadini, che aveva al suo centro la "scuola" come motore culturale e legame emotivo, luogo degli apprendimenti e degli affetti, tempo del sapere e del gioco.
Una vera, colorata "res publica", il sarcasmo del provveditore Baldassarre Gullotta aveva involontariamente colto nel segno.

Il provveditore era “colui che doveva provvedere”, il nome sottintendeva un ruolo provvidenziale, e se era il caso potevi cercarlo per chiedergli conto, andare sotto le sue finestre e contestarlo anche. Oggi le sue funzioni sono state avocate dall’U.S.P, dall’U.S.R. dal MIUR, dall’INDIRE come si può rapportarsi con sigle lontane e in frenetico mutamento?

Le radici culturali che sottintendevano le scelte didattiche del circolo erano vastissime, il dibattito vivace, le occasioni di formazione continue. Ma io, capitato lì quasi per caso, rimasi abbagliato prima di tutto dal divertimento, dall'allegria, dall'informalità, dalla passione, dall'energia con cui le "equipe" degli insegnanti lavoravano.

Marcello era il nostro direttore didattico e "nomen omen".

Il direttore era colui che dava la direzione, il timoniere che vedeva più lontano e sapeva dove arrivare. Oggi li hanno sostituiti con i dirigenti scolastici, una definizione che sembra richiamare qualcuno che dirige il traffico delle pratiche sulla propria scrivania.
Quando Marcello mi accompagnò nella classe di cui mi diede la responsabilità per un intero anno colse perfettamente l’ansia che mi prese nel varcare la porta. Si fermò appena un attimo, mi guardò dritto negli occhi e disse soltanto:

...impareranno malgrado noi...”

Non ci fu bisogno d’altro. La leggerezza e la fiducia che mi regalò con quella “picciola orazione” non mi hanno più abbandonato. incominciava un’avventura che non potevo immaginare migliore, così divertente che al momento di riscuotere lo stipendio dovevo vincere un senso di sorpresa: "...ma come, mi pagano anche?"

Quali erano le componenti che rendevano quel tipo di scuola così attraente da provocarmi un imprinting indelebile? Qual è la ragione che mi fece restare, per provare a diventare davvero un maestro?
Pensandoci ora, ma al momento non mi feci molte domande, ci sono almeno due motivi che ne comprendono molti altri.
La sensazione di far parte di un movimento capace di produrre libertà e cambiare il mondo a partire dalla scuola, il luogo dove la vita cresce, mi faceva sentire importante.
L'idea di poterlo fare con un gruppo di amici, praticando la fantasia, la curiosità, il gioco, l'intelligenza, la tenerezza, mi rendeva felice.
Giovani, importanti e felici. Si poteva chiedere di più?

Certo che si poteva, per rendere tutto più appassionante ci voleva un nemico, potentissimo, accampato sotto il nostro stesso tetto: la scuola tradizionale, quella della sola mattina, che tutti avevamo frequentato e continuava ad essere in Italia un modello praticamente unico.
Il circolo didattico di Bagno a Ripoli era infatti spaccato a metà tra le variopinte classi a tempo pieno e quelle tradizionali, con i ragazzi inappuntabili nei loro grembiuli forniti di regolamentari fiocchi.
L'inevitabile rivalità all'interno del gruppo dei docenti aggiungeva sale alle nostre giornate e infiammava i collegi dei docenti.

Campione indiscusso della "vecchia scuola" era la maestra Tomasi Néra Pacileo, maestosa, appesantita dall'età, sempre drappeggiata in vestiti di seta nera. La lentezza faticosa con cui attraversava i corridoi della scuola aggiungeva, anziché togliere, regalità al suo incedere. Passava agitando mollemente un ventaglio e, senza posare lo sguardo su nessuno, declamava con nonchalanche endecasillabi danteschi. Quando incontrava un militante del tempo pieno dimostrava una particolare predilezione per quelli dedicati agli ignavi: “non ti curar di lor, ma guarda e passa”.
La sua cattedra era l'unica ad aver mantenuto la pedana; tutte le altre, ridipinte di colori vivaci, erano diventate tavoli per la scuola dell'infanzia.
Nèra, dopo essersi lentamente issata sulla pedana e accomodata sulla sedia, prendeva a dirigere la sua scolaresca come un'ape regina potrebbe dirigere un'arnia.
Gli alunni, disposti nelle fila regolari dei banchi, sembravano legati a lei da una ragnatela invisibile (che fosse un ragno invece di un'ape?). A cadenze regolari si alzavano trasformandosi in un corteo di diligenti formiche pronte a consegnare il proprio raccolto alla matriarca (formica regina?). Lei rimaneva al centro, imperturbabile, a dispensare con la stessa serenità premi e castighi in forma di voti inappellabili.
Rappresentava l'esatto contrario dei nostri ideali e del nostro agire, ma affacciandosi alla sua classe era difficile non riconoscerle una evidente grandezza: come riusciva a mantenere un controllo così completo sui ragazzi? Con quale trucco li rendeva immobili e silenziosi? Le ritmiche giaculatorie che filtravano dietro la porta del suo regno erano lezioni o incantesimi? (Che fosse una maga?).
Di sicuro funzionavano perché i risultati scolastici della maggior parte dei suoi allievi erano ottimi, se non eccellenti.

Poi le capitò di ammalarsi e per una settimana toccò a me sostituirla. Ebbi le chiavi del sancta sanctorum, ma non quelle del cassetto dove teneva accuratamente custoditi registro, compiti, schede, programmi di lavoro, guide... e chissà sa quali altri segreti sortilegi.
Mi sedetti dietro una cattedra e assaporai la vertigine del potere assoluto. I ragazzi mi guardavano inespressivi, anch'io non sapevo cosa dirgli e ci volle poco a capire che in quel ruolo non ero credibile.
Scesi e mi misi a girare per i banchi controllando da vicino il loro lavoro, cercai di movimentare le lezioni, introdussi qualche timido cambiamento nell'ordine prestabilito delle loro mattine, li portai addirittura in giardino. Ma non credo di aver inciso sull'idea che si erano fatti della scuola o di avergli davvero mostrato una possibile alternativa. Anche se ne avessi avuto le capacità (e non le avevo) non mi sarebbe bastato il tempo, e la maestra Tomasi Néra Pacileo era persona da far tremare i polsi a gente molto più tosta di un supplente alle prime esperienze.
Ma una piccola grande vittoria la riportai, e ne fui meschinamente orgoglioso.
C'era una bambina in uno degli ultimi banchi con il quaderno pieno di errori e parole illeggibili. Notai che cercando di copiare dalla lavagna strizzava leggermente gli occhi, le chiesi se vedeva quello che avevo scritto, lei rispose di sì, troppo precipitosamente.
Con una scusa le cambiai posto, mettendola nel banco immediatamente sotto alla lavagna.
Molti errori sparirono, la grafia si fece più chiara.
All'uscita chiamai la sua mamma e con l'impudenza della gioventù le dissi che doveva portare la figlia a fare degli occhiali.
Lei mi guardò con un inizio irritazione: "La maestra non mi ha detto nulla!"
"Strano, io me ne sono accorto subito!" Vanesio e insinuante.
Una settimana dopo vidi la bambina indossare con grazia un paio di occhiali con la montatura di celluloide rosa e scoprii che la maestra Pacileo le aveva anche fatto guadagnare qualche posto nella fila dei banchi.

Avrei dovuto inorgoglirmi, ma in qualche modo sentivo che sarebbe stato sbagliato, infatti non feci parola dell'accaduto a Marcello.
Adesso so perché, e mi sembra di sentirlo:

"...hai nutrito solo il tuo narcisismo e per farlo hai screditato una collega di fronte ai genitori. Néra è anziana e ci vede pochissimo, dovevi dire a lei quello di cui ti eri accorto, e stai sicuro che non si sarebbe appropriata di nessun merito. Anzi ti avrebbe stimato un po' di più, forse saresti passato dal girone degli ignavi al primo circolo del Purgatorio..."

Il riconoscimento dei meriti di ciascuno non può passare dal discredito gettato su altri.
Questo è uno degli innumerevoli lasciti di Marcello, che credo non abbia mai scritto i suoi precetti, li ha solo incessantemente praticati.
È stato un intellettuale capace di finissime operazioni di pensiero, ma ha sempre privilegiato l'azione e i rapporti umani, senza i quali il pensiero è niente:

...non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all'amore il resto è niente...”


Anche per questo decisi di seguirlo quando, alcuni anni dopo il circolo di Bagno a Ripoli si divise e lui scelse di rimanere nella scuola del capoluogo.
Veramente avevo pensato di trattenermi in collina, ma quando scesi in direzione per sottoscrivere la domanda di trasferimento trovai due nuove segretarie. Era estate e una aveva una camicetta leggera… Mi accorsi che Marcello era entrato nella stanza solo quando era già molto vicino, il suo passo aveva la leggerezza di un gatto, sorrideva seguendo il mio sguardo.

Paolo Scopetani




1 commento :

  1. Caro maestro per caso, in un frazione di tempo relativamente breve, hai attivato memorie, emozioni, riflessioni ma anche sottili nostalgie di una scuola che fu, è stata e mai più potrà tornare, perché ormai immersi in un flusso irreparabile di cambiamento che ci trascina tutti verso una deriva, di sfiducia e d'impotenza..A volte risorge invece la ribellione, voglio anch'io la mia Libera Repubblica, ma i Circoli Didattici non ci sono più, i Direttori nemmeno..e hai ragione tu, le parole sono importanti e scegliere di cambiare il termine cambia anche la direzione in cui vanno le azioni e quindi anche i pensieri e le idee ..da circolare in verticistico? Forse, lo sappiamo, i discorsi sono tanti e andrebbe dipanata la matassa con la lineare e asciutta analisi con cui hai dipinto uno sfondo che mi ha ispirato la nostalgia per qualcuno che non ho mai conosciuto..possibile? Ebbene sì, sei perfettamente consapevole di essere stato fortunato, ma credo anche che tu abbia meritato fino in fondo il tuo buon maestro. Non abbiamo avuto tutti questo privilegio, però tutti incontriamo almeno uno, non dico tanti, ma senz'altro un buon maestro, nella nostra carriera di vita. La differenza la fa la tua anima, e la lezione che sceglie per te.
    Posso, fra l'altro, testimoniare della lezione ben appresa sull'importanza di dare valore alle persone, alle piccole cose, al garbo e dalla misura che ti appartengono nelle relazioni. D'altra parte la scuola è fatta soprattutto di questo, risorse umane, progetti, idee e parole..tante, forse troppe ma non sempre così buone.
    Le tue parole sono buone, caro maestro per caso, trasudi amore e gratitudine. Credo che sia esattamente di questo che necessitiamo, nella scuola e nella vita.

    Quello che ci manca, invece, sono proprio loro, le parole belle, perché ci accomodiamo sempre di più, giorno dopo giorno, nelle parole brutte, nelle paroline veloci delle canzoni, o della televisione, e nelle parole sporche e inutili, o nelle parole pompose, o nelle parole alla moda ..o- la cosa peggiore di tutte- nelle vanvere, cioè quelle parole che ti cadono in bocca e si moltiplicano senza essere passate dalla testa e dal cuore.
    E. Ianniello. La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin

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