lunedì 23 novembre 2015

La collina delle parolacce




Uno degli incubi più ricorrenti era il suono metallico di quella specie di sirena. Si svegliava improvvisamente con il volto imperlato di sudore e soltanto dopo un po' di secondi realizzava che poteva ancora starsene a letto, aveva ancora un altro po' di ore di libertà. Bruno aveva già scontato tre anni, gliene rimanevano ancora due poi la pena sarebbe continuata in un'altra sede ma nello stesso istituto. Sapeva che le cose non sarebbero cambiate di tanto, l'aveva sentito dire dai più grandi, sarebbe aumentato il numero dei suoi aguzzini che si sarebbero intrattenuti con loro per minor tempo ma per il resto sarebbe stato come sempre: costretti a stare per sei - otto ore a sedere in una seggiolina dietro ad un banchino, dover chiedere il consenso per andare in bagno, non poter correre quasi da nessuna parte, potersi riposare un po’ soltanto 1- 2 volte al giorno ad ore prefissate e spesso senza poter andare fuori. Le rare volte che ti concedevano un po' di aria fresca in cortile ti trovavi ad essere sorvegliato costantemente senza mai poter fare ciò che avresti voluto perché il regolamento impediva tutte le attività divertenti.
La mensa si consumava in enormi refettori dove la confusione era tale che perdevi l'appetito e in cambio acquistavi quasi sempre un gran mal di testa.
Bruno era rassegnato a dover passare un altro anno in quel carcere, si vestì, si mise l'uniforme e, senza alcuna voglia, si preparò ad affrontare quel quarto anno di scuola.
Tutto era come l'aveva lasciato qualche mese prima. Tutto no in realtà, sapeva che sarebbe cambiato il sorvegliante.
Avrebbero avuto un nuovo aguzzino, un giovane uomo dall'aspetto un po' trasandato, barba incolta, non molto alto, corporatura robusta. Parlava quasi sottovoce, non alzava mai il tono. Si presentò e rimase in piedi senza mettersi a sedere al suo posto di sorveglianza. Li fece alzare e li mise tutti in cerchio, Bruno e i suoi compagni osservavano quel nuovo adulto e non capivano che intenzioni avesse”.
Questa è la sintesi, rivista e corretta, di un tema che Bruno fece alla fine della quarta elementare.
Il sorvegliante ero io, avevo avuto quell’anno l’incarico in quella scuola che effettivamente da fuori sembrava davvero un carcere e mi avevano assegnato a una quarta primaria.
Il giorno dopo Bruno e i suoi compagni tra risatine e occhiate di complicità mi fecero una bella sorpresa, alla lavagna trovai, scritta in un misto di stampatello e corsivo, la frase “il nuovo maestro è stronzo”. All’inizio ignorai la cosa, feci l’appello e poi dissi agli alunni di prendere il quaderno di italiano perché avremmo fatto l’analisi grammaticale di alcune frasi e avremmo iniziato da quella scritta alla lavagna. Ci fu un attimo di sgomento nei loro occhi, una bambina, molto precisa e attenta, chiese se la frase andasse scritta sul quaderno…”certo!” le risposi – “analizzeremo insieme ogni termine”; scoprire che in quella frase “stronzo” era un aggettivo qualificativo distrusse in un attimo il potenziale “offensivo” di quella parola, fu come sostituire pallottole con bolle di sapone.
Nei giorni seguenti mi rendevo conto che il mio comportamento era per loro inusuale, non ero il solito sorvegliante duro e intransigente a cui probabilmente erano abituati, quando qualcuno sbagliava non lo rimproveravo deridendolo davanti a tutti ma dicevo loro che l’errore era fondamentale per permettermi di fare il mio lavoro, “l’errore” – aggiungevo – “è per un maestro come una pepita per il cercatore d’oro”.
Per Bruno e i suoi compagni restavo sempre un “aguzzino”, così continuavano a provocarmi per confermare la loro convinzione, una mattina arrivai a scuola e trovai la cattedra nascosta dietro la lavagna. Ringraziai chi aveva fatto questo cambiamento, dissi che l’avrei voluto fare presto anche io e che loro mi avevano preceduto, poi spostai la lavagna e portai la cattedra direttamente fuori dalla classe dicendo che non mi serviva e che a questo punto avremmo dovuto cambiare anche il modo in cui erano collocati nell’aula i loro banchi.
Nonostante ogni giorno riservassi piacevoli sorprese ai ragazzi come la prima mezz'ora d’accoglienza in cui potevano fare varie attività libere: leggere, parlare, giocare con giochi da tavolo, finire i compiti del giorno prima, ascoltare la musica, c’era ancora in loro la persuasione che io fossi da una parte e loro dall’altra e così cercavano ancora di “smascherarmi”.
Un giorno, mentre stavo spiegando un argomento, Bruno a un tratto si precipitò fuori senza dirmi niente. Lo inseguii e lo riportai in classe rimbrottandolo, lui si sbottonò i pantaloni e fece la pipì nel cestino accanto alla porta della classe dicendomi “se invece di rincorrermi e arrabbiarti mi lasciavi andare, la pipì l’avrei fatta in bagno…mi scappava forte e ad alzare la mano avevo paura di farmela addosso”. Tutti si misero a ridere e Bruno, ormai vittorioso tentò di mettermi a tappeto e proseguì: “te che fai tanto il democratico perché ci fai alzare la mano per andare in bagno? Perché dobbiamo chiederti il permesso? Quando ci scappa lo sappiamo noi, mica te!”.
Incassai la predica e gli dissi che aveva ragione, che ne avremmo parlato il giorno dopo e avremmo trovato una soluzione. Così i ragazzi, giorno dopo giorno, cominciarono a sperimentare il lavoro cooperativo, la creazione e la condivisione delle regole, le discussioni in cerchio, la possibilità di uscire fuori dalla classe senza dover chiedere il permesso all’adulto.
Trascorso qualche mese per quei ragazzi la loro cella si era lentamente trasformata in una classe e quella prigione nella loro scuola.
Un giorno Bruno, mentre tutti stavano lavorando serenamente cominciò a inveire contro un problema che non riusciva a risolvere mettendo in fila una serie di parolacce da far impallidire chiunque…gli dissi che come aveva fatto per la pipì d’ora in avanti pretendevo che facesse anche per le parolacce: quando gli scappavano sarebbe potuto andare fuori, senza chiedermi il permesso, a gridarle su una collinetta che si trovava in fondo al cortile della scuola dove nessuno avrebbe potuto udirlo. Da quel giorno quel luogo fu ribattezzato la collina delle parolacce e fu usato da un po’ tutta la classe, non solo per inveire contro l’aria ma anche per urlare al cielo, per correrci intorno, insomma, per sfogarsi, per riprendere la concentrazione, per sgranchirsi le gambe. I ragazzi sentivano spesso la voglia di correre e urlare e l’idea di poterlo fare liberamente piano piano gli bastò e cominciarono a farlo con meno frequenza perché non era più proibito.
Tutte le volte che capivano fin dove potevano spingersi, cercavano un altro modo per sfidarmi, fu la volta del calcio. In quella scuola era severamente proibito giocare a calcio, come in quasi tutte le scuole in cui ho insegnato e che ho conosciuto. Iniziarono nel corridoio con una pallina fatta di carta e scotch, li osservai senza dir loro niente. Quando tornarono in classe gli dissi che giocavano alquanto male al calcio, prima di giocare nel corridoio con una pallina di carta avrebbero dovuto imparare a giocare con una vera palla. Gli proposi, d’ora in avanti, di giocare nell’ora di motoria a patto che sospendessero di farlo nei corridoi e che giocassero tutti insieme, maschi e femmine. Non fu facile ma di questo scriverò un’altra volta.
Era passato metà anno e Bruno non mi provocava più, un giorno mi disse: “te sei furbo maestro…non ci proibisci niente e così noi non litighiamo con te”. “Non è esatto” – gli risposi – “ vi proibisco di non rispettarvi tra di voi e di non rispettare gli altri in generale, se vuoi litigare con me basta che non porti rispetto a qualcuno, anche a te stesso e vedrai quanto mi farai arrabbiare”. Glielo dissi guardandolo dritto negli occhi, lo trafissi con lo sguardo come se lo stessi dicendo per sfidarlo. Era la prima volta che lo sfidavo, si erano invertite le parti, me ne stetti fermo immobile, ringhiando come un lupo sulla preda, era solo un bambino di dieci anni che aveva bisogno di limiti e di regole. Distolse lo sguardo, si fece piccolo piccolo, mi venne vicino e mi dette una pacca amichevole sulla spalla dicendomi sottovoce “ non lo farei mai perché tu non sei un aguzzino, sei un maestro”, gli sorrisi e alzandolo di peso lo tenni in aria per fargli sentire la mia forza e gli risposi “ e te sei una simpatica canaglia Bruno”. Mi abbracciò chiedendomi cosa volesse dire “canaglia”, “vai a cercarlo sul vocabolario in classe” gli dissi.
Bruno era un ragazzino con due occhi neri come la pece e un fisico pesante e massiccio, mi venne il mal di schiena per qualche giorno ma lo avevo conquistato per sempre.


Matteo Bianchini






1 commento :

  1. Quante ne ho conosciute di "canaglie" del genere,in 40 anni di "educatrice"…e quanto mi mancano ora...

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