“Uno
degli incubi più ricorrenti era il suono metallico di quella specie
di sirena. Si svegliava improvvisamente con il volto imperlato di
sudore e soltanto dopo un po' di secondi realizzava che poteva ancora
starsene a letto, aveva ancora un altro po' di ore di libertà. Bruno
aveva già scontato tre anni, gliene rimanevano ancora due
poi la pena sarebbe continuata in un'altra sede ma nello stesso
istituto. Sapeva che le cose non sarebbero cambiate di tanto, l'aveva
sentito dire dai più grandi, sarebbe aumentato il numero dei suoi
aguzzini che si sarebbero intrattenuti con loro per minor
tempo ma per il resto sarebbe stato come sempre: costretti a stare
per sei - otto ore a sedere in una seggiolina dietro ad un banchino,
dover chiedere il consenso per andare in bagno, non poter correre
quasi da nessuna parte, potersi riposare un po’ soltanto 1- 2 volte
al giorno ad ore prefissate e spesso senza poter andare fuori. Le
rare volte che ti concedevano un po' di aria fresca in cortile ti
trovavi ad essere sorvegliato costantemente senza mai poter fare ciò
che avresti voluto perché il regolamento impediva tutte le attività
divertenti.
La
mensa si consumava in enormi refettori dove la confusione era tale
che perdevi l'appetito e in cambio acquistavi quasi sempre un gran
mal di testa.
Bruno
era rassegnato a dover passare un altro anno in quel carcere,
si vestì, si mise l'uniforme e, senza alcuna voglia, si preparò ad
affrontare quel quarto anno di scuola.
Tutto
era come l'aveva lasciato qualche mese prima. Tutto no in realtà,
sapeva che sarebbe cambiato il sorvegliante.
Avrebbero
avuto un nuovo aguzzino, un giovane uomo dall'aspetto un po'
trasandato, barba incolta, non molto alto, corporatura robusta.
Parlava quasi sottovoce, non alzava mai il tono. Si presentò e
rimase in piedi senza mettersi a sedere al suo posto di sorveglianza.
Li fece alzare e li mise tutti in cerchio, Bruno e i suoi compagni
osservavano quel nuovo adulto e non capivano che intenzioni avesse”.
Questa
è la sintesi, rivista e corretta, di un tema che Bruno fece alla
fine della quarta elementare.
Il
sorvegliante ero io, avevo avuto quell’anno l’incarico in quella
scuola che effettivamente da fuori sembrava davvero un carcere e mi
avevano assegnato a una quarta primaria.
Il
giorno dopo Bruno e i suoi compagni tra risatine e occhiate di
complicità mi fecero una bella sorpresa, alla lavagna trovai,
scritta in un misto di stampatello e corsivo, la frase “il nuovo
maestro è stronzo”. All’inizio ignorai la cosa, feci l’appello
e poi dissi agli alunni di prendere il quaderno di italiano perché
avremmo fatto l’analisi grammaticale di alcune frasi e avremmo
iniziato da quella scritta alla lavagna. Ci fu un attimo di sgomento
nei loro occhi, una bambina, molto precisa e attenta, chiese se la
frase andasse scritta sul quaderno…”certo!” le risposi –
“analizzeremo insieme ogni termine”; scoprire che in quella frase
“stronzo” era un aggettivo qualificativo distrusse in un attimo
il potenziale “offensivo” di quella parola, fu come sostituire
pallottole con bolle di sapone.
Nei
giorni seguenti mi rendevo conto che il mio comportamento era per
loro inusuale, non ero il solito sorvegliante duro e
intransigente a cui probabilmente erano abituati, quando qualcuno
sbagliava non lo rimproveravo deridendolo davanti a tutti ma dicevo
loro che l’errore era fondamentale per permettermi di fare il mio
lavoro, “l’errore” – aggiungevo – “è per un maestro come
una pepita per il cercatore d’oro”.
Per
Bruno e i suoi compagni restavo sempre un “aguzzino”, così
continuavano a provocarmi per confermare la loro convinzione, una
mattina arrivai a scuola e trovai la cattedra nascosta dietro la
lavagna. Ringraziai chi aveva fatto questo cambiamento, dissi che
l’avrei voluto fare presto anche io e che loro mi avevano
preceduto, poi spostai la lavagna e portai la cattedra direttamente
fuori dalla classe dicendo che non mi serviva e che a questo punto
avremmo dovuto cambiare anche il modo in cui erano collocati
nell’aula i loro banchi.
Nonostante
ogni giorno riservassi piacevoli sorprese ai ragazzi come la prima
mezz'ora d’accoglienza in cui potevano fare varie attività libere:
leggere, parlare, giocare con giochi da tavolo, finire i compiti del
giorno prima, ascoltare la musica, c’era ancora in loro la
persuasione che io fossi da una parte e loro dall’altra e così
cercavano ancora di “smascherarmi”.
Un
giorno, mentre stavo spiegando un argomento, Bruno a un tratto si
precipitò fuori senza dirmi niente. Lo inseguii e lo riportai in
classe rimbrottandolo, lui si sbottonò i pantaloni e fece la pipì
nel cestino accanto alla porta della classe dicendomi “se invece di
rincorrermi e arrabbiarti mi lasciavi andare, la pipì l’avrei
fatta in bagno…mi scappava forte e ad alzare la mano avevo paura di
farmela addosso”. Tutti si misero a ridere e Bruno, ormai
vittorioso tentò di mettermi a tappeto e proseguì: “te che fai
tanto il democratico perché ci fai alzare la mano per andare in
bagno? Perché dobbiamo chiederti il permesso? Quando ci scappa lo
sappiamo noi, mica te!”.
Incassai
la predica e gli dissi che aveva ragione, che ne avremmo parlato il
giorno dopo e avremmo trovato una soluzione. Così i ragazzi, giorno
dopo giorno, cominciarono a sperimentare il lavoro cooperativo, la
creazione e la condivisione delle regole, le discussioni in cerchio,
la possibilità di uscire fuori dalla classe senza dover chiedere il
permesso all’adulto.
Trascorso
qualche mese per quei ragazzi la loro cella si era lentamente
trasformata in una classe e quella prigione nella loro scuola.
Un
giorno Bruno, mentre tutti stavano lavorando serenamente cominciò a
inveire contro un problema che non riusciva a risolvere mettendo in
fila una serie di parolacce da far impallidire chiunque…gli dissi
che come aveva fatto per la pipì d’ora in avanti pretendevo che
facesse anche per le parolacce: quando gli scappavano sarebbe
potuto andare fuori, senza chiedermi il permesso, a gridarle su una
collinetta che si trovava in fondo al cortile della scuola dove
nessuno avrebbe potuto udirlo. Da quel giorno quel luogo fu
ribattezzato la collina delle parolacce e fu usato da un po’ tutta
la classe, non solo per inveire contro l’aria ma anche per urlare
al cielo, per correrci intorno, insomma, per sfogarsi, per riprendere
la concentrazione, per sgranchirsi le gambe. I ragazzi sentivano
spesso la voglia di correre e urlare e l’idea di poterlo fare
liberamente piano piano gli bastò e cominciarono a farlo con meno
frequenza perché non era più proibito.
Tutte
le volte che capivano fin dove potevano spingersi, cercavano un altro
modo per sfidarmi, fu la volta del calcio. In quella scuola era
severamente proibito giocare a calcio, come in quasi tutte le scuole
in cui ho insegnato e che ho conosciuto. Iniziarono nel corridoio con
una pallina fatta di carta e scotch, li osservai senza dir loro
niente. Quando tornarono in classe gli dissi che giocavano alquanto
male al calcio, prima di giocare nel corridoio con una pallina di
carta avrebbero dovuto imparare a giocare con una vera palla. Gli
proposi, d’ora in avanti, di giocare nell’ora di motoria a patto
che sospendessero di farlo nei corridoi e che giocassero tutti
insieme, maschi e femmine. Non fu facile ma di questo scriverò
un’altra volta.
Era
passato metà anno e Bruno non mi provocava più, un giorno mi disse:
“te sei furbo maestro…non ci proibisci niente e così noi non
litighiamo con te”. “Non è esatto” – gli risposi – “ vi
proibisco di non rispettarvi tra di voi e di non rispettare gli altri
in generale, se vuoi litigare con me basta che non porti rispetto a
qualcuno, anche a te stesso e vedrai quanto mi farai arrabbiare”.
Glielo dissi guardandolo dritto negli occhi, lo trafissi con lo
sguardo come se lo stessi dicendo per sfidarlo. Era la prima volta
che lo sfidavo, si erano invertite le parti, me ne stetti fermo
immobile, ringhiando come un lupo sulla preda, era solo un bambino di
dieci anni che aveva bisogno di limiti e di regole. Distolse lo
sguardo, si fece piccolo piccolo, mi venne vicino e mi dette una
pacca amichevole sulla spalla dicendomi sottovoce “ non lo farei
mai perché tu non sei un aguzzino, sei un maestro”, gli sorrisi e
alzandolo di peso lo tenni in aria per fargli sentire la mia forza e
gli risposi “ e te sei una simpatica canaglia Bruno”. Mi
abbracciò chiedendomi cosa volesse dire “canaglia”, “vai a
cercarlo sul vocabolario in classe” gli dissi.
Bruno
era un ragazzino con due occhi neri come la pece e un fisico pesante
e massiccio, mi venne il mal di schiena per qualche giorno ma lo
avevo conquistato per sempre.
Matteo
Bianchini
Quante ne ho conosciute di "canaglie" del genere,in 40 anni di "educatrice"…e quanto mi mancano ora...
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