Ero
nuovamente in quinta, la fine di un altro ciclo, un’altra separazione.
Separazione
dai bambini che piano piano sono diventati ragazzi ma anche dai loro genitori
con i quali avevo condiviso gioie e dolori della loro vita e di quella dei loro
figli per cinque anni. Ora toccava anche a loro, i genitori, sperimentarsi
maestri per un giorno e lavorare in compresenza
con me, a turno. E’ un’attività che ho proposto ad ogni quinta, da quando ho
iniziato a fare il maestro, è un modo per sperimentare un altro punto di vista
da parte del genitore, di mettersi nei panni dell’insegnante ma anche di vedere
la scuola e il proprio figlio da un’altra angolazione.
Ho
deciso di proporla in quinta perché è più facile per i bambini, che sono più
scolarizzati, hanno tempi di attenzione più lunghi, possiedono un vocabolario
più ricco e per i genitori è più semplice perché possono usare un linguaggio
più specifico, attinente all’argomento che propongono.
In
quella quinta la provenienza era molto disomogenea, sia a livello socio
economico che culturale, questo credo sia uno dei valori aggiunti della scuola
dell’obbligo: la varietà delle storie di vita delle persone che incontri.
Normalmente si tende a frequentare persone che hanno gli stessi interessi,
problemi, modi di pensare. Persone della stessa estrazione socio economica
della stessa provenienza culturale. Viviamo chiusi in piccoli mondi circondati
da persone simili a noi. Nella scuola primaria questo non accade, stanno accanto
di banco e giocano insieme il figlio del medico e del disoccupato, dell’autista
di mezzi pubblici e del presidente dell’azienda dei trasporti, del poliziotto e
di chi vive di espedienti. Si dividono la merenda, condividono giochi ed
esperienze insieme, vanno a casa l’uno dell’altro e studiano insieme. Tutta
questa ricchezza poi si perde inevitabilmente: il liceo orienta ed indirizza,
poi l’università e in seguito il mondo del lavoro selezionano e omogenizzano.
Il
linguaggio dei bambini è universale, non sta attento se hai le scarpe di una
marca o del discount, se il tuo amico va in vacanza alle Maldive o resta a casa
in città, i bambini non si confrontano sul conto in banca o sui titoli di
studio, questi falsi valori si affermano in seguito, nonostante la precoce
“adultizzazione” dei ragazzi di oggi.
Per
spiegare il progetto ai genitori convocai una riunione in cui chiesi, a chi se
la fosse sentita, di trasformarsi insegnante per un giorno su un argomento a
loro scelta che avrebbero condiviso con me, potevano scegliere una loro
passione, un hobby, una storia della loro vita che gli era accaduta, il loro
lavoro, io avrei inserito le loro proposte nelle programmazioni curricolari e
loro avrebbero dovuto pensare ai contenuti.
I
genitori si dimostrarono subito molto entusiasti e cominciarono a fare le
proposte più singolari. I ragazzi impararono le prime nozioni del pronto
soccorso grazie ad una mamma che prestava servizio sulle ambulanze,
ristrutturarono due armadietti in legno della classe grazie all’aiuto di un
babbo falegname, fecero scuola di notte anziché di giorno e in un laboratorio
di un babbo panettiere anziché in un’aula, impastarono il pane sbadigliando e mangiando
le brioches calde, appena sfornate, quando fuori era ancora buio. Impararono a
leggere i contatori dell’acqua grazie ad un babbo che lo faceva di mestiere e
ascoltarono in assoluto silenzio la storia di un babbo che aveva vissuto
l’esperienza del carcere ancora ragazzo; andarono a giro per strade e musei con
una mamma che faceva la guida turistica e visitarono l’acquedotto con un babbo
che faceva lì l’operaio. Chiesero ad una mamma avvocatessa perché il padre del
loro compagno era andato in carcere e ad un babbo astrofisico se era vero che tutte
le stelle che illuminano il cielo fossero già morte.
Almeno
uno, tra padri e madri, aveva regalato alla nostra classe una sua esperienza,
tutte le famiglie tranne una. Era la famiglia di una bambina Afgana la cui
integrazione nel gruppo era stata, anche negli anni precedenti, molto
difficile. Farnaz, la madre, partecipava in modo defilato alla vita della
classe, alle riunioni se ne stava sempre in un angolo in silenzio, all’inizio
pensavo perché avesse problemi a capire la lingua ma poi parlandoci realizzai
che capiva tutto e parlava la nostra lingua molto bene. La comunicazione
scuola-famiglia era sempre stata complicata con loro, in cinque anni non ci
avevano nemmeno mai dato un numero di telefono per cui pensai che probabilmente
non lo possedessero. Mi decisi ad andare a trovarla a casa sua per parlarle e
farle capire quanto sarebbe stato importante per tutti noi se lei o suo marito fossero
venuti a condividere con la classe della loro figlia una loro esperienza.
Quando
entrai nella loro casa, mi trovai in un vecchissimo trilocale angusto e umido il
cui arredo però era così vivace che rendeva tutto molto più piacevole. Farnaz
era in casa con sei dei suoi otto figli, mi accolse come se fosse venuto in
visita un principe, era molto imbarazzata ma poi, quando vide che ero contento
e a mio agio si rilassò. Le spiegai il motivo della mia visita, lei, dopo
avermi ascoltato attentamente, mi rispose che non aveva da raccontare nessuna
esperienza, che stava da anni sempre in casa senza fare altro e che della sua
esperienza in Afghanistan preferiva non parlare. Mentre conversavamo, sembrava
fossimo soli nonostante il gran numero di bambini presenti, ognuno di loro
faceva qualcosa ed aiutava la mamma in casa senza fare il minimo rumore. Io faccio solo la casalinga e accudisco
questi bambini e mio marito lavora tutto il giorno e non avrebbe tempo per
venire alla scuola, aggiunse Farnaz. Mi vennero in mente immediatamente le
parole di mia mamma, anche lei straniera e casalinga, che quando si presentava
diceva di essere una ingegnera domestica.
Perfetto Farnaz! – le dissi – tu sei un’ingegnera domestica e racconterai
la tua esperienza! La definizione di mia madre riuscì a convincerla a
venire. I bambini ascoltarono Farnaz con molta attenzione ma la cosa più
sorprendente avvenne qualche settimana dopo.
Un
venerdì pomeriggio, all’uscita di scuola trovai un capannello di mamme ad
aspettarmi, cominciarono a chiedermi come avessi fatto a convincere i loro
figli a svolgere in casa piccoli compiti come il rifarsi il letto,
apparecchiare e sparecchiare, mettere a posto i loro giochi e i loro vestiti,
qualcuno aveva addirittura iniziato a stendere i panni e a ripiegarli quando
erano asciutti; quando tutte si complimentarono con me dissi loro che il merito
non era mio ma di Farnaz, l’ingegnera domestica mamma di S.
Da
quel giorno Farnaz divenne la fidata consigliera dei problemi di gestione
domestica di tutte le famiglie che componevano la classe.
Ho sempre pensato
che la scuola è come un triangolo i cui vertici sono rispettivamente gli
studenti, il personale della scuola (docenti, custodi, personale
amministrativo, dirigente, ecc…) e i genitori. Se uno di questi tre vertici non
comunica efficacemente con gli altri due la scuola non funziona.
Sul primo vertice
c’è poco da dire: gli studenti sono le persone per cui un insegnante fa questo
lavoro, si possono incontrare classi più o meno problematiche, studenti più o
meno difficili ma personalmente credo che quel vertice sia il più semplice con
cui comunicare, sono tutti bambini e bambine che poi si trasformano in ragazzi
e ragazze, se fai questo lavoro hai bisogno di loro, ti piace tirare fuori
piano piano ciò che sono e comunicare con loro, stabilirci una relazione è il
tuo primo obiettivo. Negli anni ti capiterà di trovare studenti con cui costruisci
più facilmente un rapporto affettivo, troverai quelli che all’inizio non
riuscirai a capire ma prima o poi, se ti piace questo lavoro, riuscirai a
trovare una chiave di accesso per ogni tuo alunno. Il problema sono gli altri
due vertici, gli adulti come te.
I colleghi ed i
genitori: nemmeno il più tosto degli
studenti è paragonabile ad un adulto da un punto di vista relazionale. Lavorare
con gli adulti è infinitamente più difficile rispetto al farlo con i ragazzi.
Collaborare poi, diventa spesso una lotta contro i mulini a vento.
Forse è proprio
questa la differenza tra i ragazzi e gli adulti: i primi ti insegnano ad essere
te stesso e gli altri a fare il contrario… l’unico modo per cui questo non
avvenga è creare un legame di fiducia, conoscersi nella dimensione del
condividere un’esperienza e non solo parlarsi.
E’ frequente che
la comunicazione verbale generi malintesi e fraintendimenti, quando invece con
una persona fai qualcosa insieme è più difficile che si creino equivoci e
spesso l’esperienza che lega l’un l’altro scioglie ogni tipo di atteggiamento ostile e prevenuto.
Matteo Bianchini
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