Fare il maestro è un po' come partecipare a un beffardo gioco dell'oca: ogni cinque anni, se non più spesso, si ritorna alla casella di partenza per "prendere la prima" e in un colpo solo ci si sente franare addosso tutto il tempo passato dall'ultima volta.
Il risultato è che si invecchia a strappi.
A questo effetto concorrono molte emozioni, la malinconia e la nostalgia per una situazione che si è definitivamente sciolta, la leggerezza, l'ansia e la curiosità per la nuova da costruire, i rimpianti e le aspettative, i ricordi e il timore, l'eccitazione, la stanchezza, un pizzico di orgoglio; e altre sensazioni, variamente miscelate.
Non è facile passare dalla quotidianità con un gruppo di preadolescenti, con i quali si è costruito un rapporto affettivo, o comunque di comunanza, a quella con una ventina di nanerottoli sconosciuti e inafferrabili, che devono imparare anche a soffiarsi il naso e allacciarsi le scarpe.
Chiedete a qualsiasi insegnante com'è la prima. "...faticosa..." vi risponderà.
Perché si tratta davvero di ricominciare tutto da capo.
Primo, costruire il gruppo.
Non si impara se non in situazione sociale e ogni scuola firma i propri alunni a partire dalla qualità dei rapporti tra i singoli, dall'armonia che è capace di esprimere nella vita di relazione, dal livello di rispetto, conoscenza ed empatia che si raggiunge nello stare insieme. Realizzare una piccola comunità che permetta a tutti di sentirsi liberi, protetti e riconosciuti è il primo compito che ci aspetta.
Secondo, conoscere gli individui.
Ogni persona è unica e porta risorse e bisogni irripetibili, se non si entra in confidenza con la personalità di ciascun bambino non sarà possibile offrirgli occasioni adeguate di apprendimento e crescita. Se non si riesce, almeno approssimativamente, a indovinare la natura e la direzione dei suoi talenti sarà difficile che trovi da solo la strada per diventare quello che è già.
Non è roba da poco.
Sulla porta, reale e metaforica, della prima c'è davvero da chiedersi: "Ce la farò a fare meno danni possibile?" Tanto più se quella porta la di deve attraversare subito dopo aver compiuto sessant'anni, dieci volte quelli degli alunni.
È una domanda legittima, ma dura il tempo di una mezza estate. Poi a settembre è come quando l'arbitro fischia l'inizio della partita, che si abbia di fronte il Real Madrid o il Cuoiopelli l'unica cosa da fare è prendere posizione e cominciare a giocare.
Oggi è appunto il giorno che si gioca a diventare grandi. Il primo giorno di prima primaria, che un tempo si chiamava elementare, ma è la stessa cosa.
Per me è anche il giorno che per l'ultima volta mi rimandano sulla prima casella.
Abbiamo fatto le cose in grande quest'anno alla Pestalozzi, all'ingresso vecchi e nuovi alunni trovano in giardino un fantasmagorico Villaggio Vacanze, con campeggiatrici in pigiama, pescatori sfortunati, alpinisti coraggiosi, turiste svampite, ballerine ammalianti, abbronzati villeggianti inizio secolo, un prestante bagnino, un elegantissimo dejeneur sur l'herbe, un picnic completo di formiche, un gruppo di atlete alla ricerca della forma perfetta, un direttore/imbonitore impegnato a fare gli onori di casa... Un divertito e divertente benvenuto, concluso da una mini caccia al tesoro per arrivare nell'aula assegnata ad ogni classe.
Ci arrivano anche i bambini di prima alla loro nuova aula e si mettono a sedere ai banchi esagonali, alle pareti trovano i loro disegni della scuola dell'infanzia, tanto per non farli sentire troppo spaesati. Entro dietro di loro con gli altri colleghi, abbiamo pensato di presentarci tutti insieme (una questione di imprinting) e abbiamo anche programmato un bel discorsino introduttivo a più voci. Ma un bambino intraprendente ha già la mano alzata: "Maestro, ma ora quando si gioca?"
Già, secondo lui finora abbiamo lavorato troppo...
Una bambina minutissima non aspetta la risposta: "Cosa c'è a merenda?"
Uno piccolo con il labbro già un po' tremulo "Quando vengono le mamme?"
Un biondo dall'aria di chi sa il fatto suo: "Dov'è il bagno?"
E così i bisogni primari sono soddisfatti.
Per fortuna c'è anche la secchiona: "Oggi ci dai i quaderni?"
Il palinsesto è già stravolto, si sono messi al timone, vediamo dove ci portano; tanto abbiamo preparato un ambiente con pochi scogli, al massimo rischiamo qualche piccola ammaccatura mentre sono più che probabili delle belle sorprese...
Quattro ore dopo li accompagno all'uscita (il primo giorno orario corto per i più piccoli). Non mi sono ancora fatto un'idea precisa di cosa è successo veramente stamattina, verrà nel pomeriggio il tempo della riflessione e del diario di bordo. Riepilogherò le attività e gli episodi, le sensazioni e le ipotesi, qualche nome, molte facce. Ricostruirò il nostro scrutarci, annusarci, misurarci. I primi passi di molti che dovranno venire. Per ora sono troppo vicino e dentro la situazione per mettere in fila gli ingredienti, per analizzare cosa è avvenuto sopra e appena sotto la superficie, per valutare i miei sentimenti e quelli dei bambini. Per capire come è andato questo ultimo/primo giorno di scuola.
Li riconsegno ai genitori, che non conosco, controllando che per ognuno ci sia un adulto ragionevolmente abbinabile. Sono i bambini stessi che devono indicarmi la mamma o il babbo o le tate.
La piccola Anna corre incontro alla mamma, le si arrampica velocemente in collo e l'abbraccia stretta. Dopo le prende il viso tra le mani per essere sicura che l'ascolti e sento la voce della bambina dei Simpson chiedere: "Mamma ti prego, domani ci posso tornare?"
Bene! Ora so di avere un bonus che arriva almeno al secondo giorno di scuola. Per i successivi si potrà lavorarci.
L'entusiasmo nella voce di Anna ha rimosso gli anni che mi erano cascati addosso durante l'estate, a fare i maestri capita anche di ringiovanire a strappi.
Paolo Scopetani
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