Era la mia prima classe prima. Avevo avuto tante altre esperienze ma mai l'opportunità di cominciare la scuola insieme ai bambini con la prospettiva di seguirli per tutti gli anni della scuola primaria.
Ero al settimo cielo, scuola nuova,
tutto da scoprire e da conoscere: colleghi, genitori, alunni, spazi,
territorio. Finalmente avrei iniziato un ciclo!
Arriva il primo giorno di scuola per
tutti, emozione, un po' di ansia e tanta curiosità.
Conosco i 20 piccoli signori che saranno miei compagni di avventura. Per
l'esattezza tredici signori e sette signore di sei anni (per qualcuno non
ancora compiuti). C'è chi
piange, chi si sente già a
proprio agio, chi si guarda in giro stranito e attonito. Tutti comunque sono a
sedere attorno ad un banco sulle piccole sedie di ferro e legno tipiche della
scuola; tutti tranne uno, P, che invece ha scelto di starsene sotto il banco.
Scelta curiosa e divergente. Cosa fare a questo punto? Dovevo tirarlo fuori per
forza? Lasciarlo lì? Cosa
avrebbero pensato i suoi compagni? E i miei colleghi? E i genitori?
Troppe domande a cui rispondere per
il primo giorno di scuola, mi limitai ad osservarlo senza intervenire
rimandando qualsiasi decisione ai giorni successivi sperando che il tempo
avrebbe risolto tutto. La speranza però
mi abbandonò ben
presto: il mio amico P continuava a starsene caparbiamente sotto il banco, si
alzava solo per uscire dalla classe. Cominciai a chiedere aiuto e consigli a
colleghi e amici, molti non sapevano cosa dirmi, altri mi consigliavano di
farlo uscire da lì e di parlarne con i genitori perché comunque era un
atteggiamento “strano”.
Un giorno ne parlai a mia sorella che mi rispose semplicemente: “ci
starà
bene sotto quel tavolo, ti ricordi quando eravamo piccoli che ci andavamo a
nascondere sempre nei luoghi più impensabili perché
lì
ci sentivamo al sicuro?”. L’angolo tana…certo! Perché non ci avevo
pensato prima? Eppure prima di diventare maestro di scuola primaria sono stato
tanti anni educatore asilo nido…l’angolo tana rassicura i bambini
facendoli sentire protetti. Il mio nuovo alunno ci stava proprio comodo sotto
il banco e si sentiva molto più protetto che a sedere su una sedia.
Da quel giorno provai a non osservare soltanto il suo comportamento ma ad
interagire con lui come con tutti gli altri per cui gli facevo avere il
quaderno, le matite e tutti gli strumenti che occorrevano per lavorare anziché
sul banco sotto il banco. All’inizio rifiutò categoricamente
ogni cosa gli proponessi: quando andava bene ignorava me e ciò
che gli offrivo altrimenti si metteva a stracciare i fogli, a rompere le matite
e a scaraventare fuori dalla sua tana tutti i materiali che aveva sottomano.
Gli altri bambini osservavano incuriositi e meravigliati le dinamiche tra il loro
nuovo compagno di scuola e il loro nuovo maestro. Erano affascinati dal
coraggio di quel bambino che osava avere quell’atteggiamento così
spavaldo e provocatorio verso la figura adulta, che si permetteva di fare cose
che andavano contro le regole e che nessun altro aveva l’audacia di fare ed
erano stupiti anche dal comportamento di quel nuovo maestro che non avevano ancora
capito se non fosse in grado di imporsi. Tutti stavano alle regole di questo
strano gioco collaborando con entrambi.
Giorno dopo giorno mi accorgevo che
il mio amico tentava di fare ciò che gli chiedevo ma quando vedeva che
non gli riusciva oppure non era soddisfatto del suo lavoro cominciava a
strappare i suoi elaborati e a lanciare tutto ciò che aveva nella sua “tana”
a giro per la classe. Non riusciva a tollerare la frustrazione dell’insuccesso
e spesso era troppo severo con se stesso e non si accontentava di ciò
che riusciva a fare, non accettava né di poter sbagliare né,
quando riusciva, di realizzare prodotti che non fossero all’altezza
delle sue aspettative. In più non voleva assolutamente essere
aiutato.
Poi c’erano i genitori, le reazioni dei
genitori ai discorsi dei loro figli che raccontavano delle vicissitudini del
loro compagno di classe che se ne stava sotto il banco. Decisi di ignorare i
classici “rumors” partoriti dai capannelli di genitori
che in ogni scuola italiana si formano ad ogni entrata e uscita della scuola. Arrivò
il giorno in cui babbo e mamma del bambino in questione mi chiesero un
colloquio. Mi accorsi che erano molto più in ansia di me, avevano paura che
quel comportamento del loro figlio fosse rivelatore di strane patologie e che
io non avessi ancora avuto il coraggio di dirglielo. Quando gli comunicai che
ero convinto che il loro figlio fosse assolutamente un bambino sano e nella
norma ma che non avevo ancora ben capito perché si comportasse così
si rilassarono un po’ anche se non riuscii a convincerli della mia idea. Aggiunsi
che avevo la sensazione che lentamente stavo costruendo una relazione di
fiducia con il loro figlio e quindi pensavo di essere sulla strada giusta.
Naturalmente bleffavo e non sapevo fare nessuna previsione di ciò
che ci avrebbe riservato il futuro però avevo deciso di giocare le mie carte in
questo modo e volevo andare fino in fondo…
In quel periodo non passava giorno in
cui non mettessi in discussione le mie scelte, e se stessi facendo un’enorme
stupidaggine? E se questo bambino avesse avuto bisogno di una certificazione, un
sostegno, un aiuto diverso? L’ansia e la preoccupazione aumentavano
col passare dei giorni, ormai si avvicinavano le vacanze di Natale e avevo
ottenuto poco e niente, gli altri bambini già iniziavano a leggere, scrivere e
contare, cominciavano a muoversi autonomamente per la scuola; molti amici e
colleghi con cui mi confidavo mi consigliavano di agire con maggior
risolutezza: da una parte di impormi maggiormente con il mio alunno e dall’altra
di cominciare a prospettare alla famiglia la possibilità di indagare su
probabili disturbi specifici dell’apprendimento o su possibili
patologie.
Nonostante cominciassi a perdere il
sonno su questa storia e non fossi confortato da reali miglioramenti riguardo
al comportamento di P ero sicuro che se avessi seguito questi consigli avrei perso per sempre la sua fiducia. Al
contempo mi chiedevo però se il mio atteggiamento tutelasse davvero P oppure se ormai
ne stessi facendo una questione d’onore personale. Mi trovavo da solo,
attanagliato da questi dubbi, l’unico conforto erano i miei alunni,
che mi sembravano felici e contenti di venire a scuola e stavano diventando un
bel gruppo.
Venne Natale e, dopo le vacanze, ebbi
il mio regalo. Al rientro a scuola P. si sedette al banco, lo salutai e gli
detti il buongiorno come facevo quando se ne stava sotto, ricevere una risposta
era troppo, per ora dovevo accontentarmi della sorpresa di averlo “stanato”.
Nei giorni seguenti continuò
a sedersi al banco ma anche a rifiutarsi di lavorare e di parlarmi ma a
ricreazione cominciò a conversare con i suoi pari età. Lo vedevo sempre
più
integrato nel gruppo, felice e sereno di venire a scuola e di giocare con gli
altri bambini. Nonostante i suoi rifiuti e le sue manifestazioni di rabbia,
continuai imperterrito a proporgli lavori, compiti e attività
della classe. Piano piano cominciò ad accettare gli aiuti spontanei dei
suoi compagni di classe; la mattina cominciò a rispondere al mio saluto. Un
giorno, eravamo ancora in pieno inverno, dopo avergli distribuito una scheda di
lavoro, mi guardò e mi disse: “va bene maestro questa te la faccio ma
vado a lavorare sotto il banco, poi però ritorno…” avrei voluto abbracciarlo e
stampargli un bacio in fronte, mi limitai a strizzargli l’occhio
e a dargli il cinque e uscii velocemente di classe perché non riuscivo più
a trattenere le lacrime di gioia e commozione. Mi chiusi in bagno e le lasciai
sgorgare.
Ci vollero quattro mesi, dall’inizio
della scuola, prima che P stesse seduto al suo posto e altri due prima che
iniziasse anche a lavorarci sopra il banco. Sei mesi di scuola durante i quali
quel bambino mi aveva insegnato ad aspettare i tempi di ognuno ed avevo
imparato anche che è fondamentale dare ai bambini la libertà
di sperimentare luoghi e posture diversi nello “stare a scuola”: per tutti e
cinque gli anni della scuola primaria quando P incontrava difficoltà
si metteva in terra sotto il banco a lavorare finchè sotto quel banco
non è
più
riuscito a entrarci.
Un giorno, alla fine del nostro primo anno di scuola, mentre eravamo a lavorare sugli scioglilingua, P, leggendo “sopra la panca la capra campa sotto la panca la capra crepa” mi disse: “maestro io sono il contrario della capra!”. Matteo Bianchini
bellissimo!!!
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