"Maestro,
ma stasera cosa si mangia?"
C'è
sempre, in ogni classe, qualche alunno che ad un acuto senso di osservazione
unisce uno spiccato senso pratico, e in effetti, anche se la colonica che ci
ospita è gradevole ed accogliente, ad una sommaria ispezione il
frigorifero si rivela malinconicamente vuoto.
"Adesso
andiamo fuori e ci si procurerà qualcosa da mangiare
cacciando..."
C'è
sempre, in ogni classe, un insegnante che pensa di essere spiritoso.
Questo
scambio informale e fugace, fedelmente riportato, si svolgeva durante una gita
di una seconda elementare, su una delle tante colline intorno a Firenze.
Il
paesaggio era incantevole, la luce cristallina, la natura non sembrava matrigna
ed il maestro archiviò velocemente il colloquio per proporre
una passeggiata (secondo il programma che prevedeva "esplorazione
d'ambiente").
Seguì
un pomeriggio errante di giochi e corse tra boschi, prati, strade bianche,
fontanili, campi, maneggi, ruderi, coloniche, vigne... Fino ad arrivare in
fondo alla valle ed al ruscello, dove rimasero abbastanza a lungo perché
molti rischiassero di cascarci dentro, un paio concretizzassero il rischio e
tutti si bagnassero almeno le scarpe.
Poi, a
febbraio le giornate sono corte, arrivò l'ora del tramonto e fu il momento di
tornare; il bosco assomigliava a quello di Biancaneve, pieno di animali
furtivi, fruscii, voli, tonfi, movimenti, occhi, scricchiolii.
Già
in vista della casa il maestro si sentì prendere per mano da una bambina e
pensò "È quasi buio, Stellina cerca
protezione.."
Ma
nell'altra mano la bambina stringeva risolutamente un bastone e fissandolo con
occhi innocenti gli disse, con tono di rimprovero: "Maestro, ma ancora non
abbiamo cacciato nulla!"
Poche
parole che demoliscono in un attimo luoghi comuni e convinzioni radicate.
Prima di
tutto, mai fidarsi delle bambine dolcissime, timide e con gli occhi da
cerbiatta: di fronte alla prospettiva di restare senza cena sono disposte a
rinunciare a qualsiasi proposito vegetariano, per diventare spietate
cacciatrici (anche Diana era una tenera fanciulla).
E poi la
ricorrente lamentela degli insegnanti: "I ragazzi sono distratti e
superficiali, non stanno mai attenti, non ci ascoltano più..."
Invece i
bambini ci ascoltano eccome! E stanno attentissimi alle nostre parole. Solo che
ci ascoltano quando non ce lo aspettiamo, quando non vorremmo, magari quando
non dovrebbero. E poi interpretano
quello che diciamo, lo travisano, gli inventano significati, a volte
scoprendoci a noi stessi, rivelandoci
per qualcosa che non sapevamo di essere.
Non solo
ci ascoltano, hanno così tanta fiducia in noi da prenderci
alla lettera: Stella, una bambina spesso in disparte e chiusa nei suoi
pensieri, aveva ascoltato la mia insulsa
battuta, che non era nemmeno rivolta a lei, ne aveva tratto logiche
conclusioni, si era costruita aspettative e ora mi contestava la loro mancata
realizzazione.
Quindi
dovremmo stare più attenti a quello che diciamo (e
facciamo) magari le nostre parole (e azioni) non riecheggeranno nei secoli
(come quelle del "Gladiatore") ma una piccola eco, nelle menti e
nelle vite dei nostri ragazzi, la lasceranno, in una misura che nessuno può
prevedere a priori, e a partire dalle situazioni più
inaspettate, perché, come diceva Gaber "la realtà
è più avanti" e tentare di afferrarla
nel momento che la viviamo è esercizio inutile, prima ancora che
impossibile.
Infatti
mi è capitato spesso, confrontando i miei ricordi con quelli dei
miei ex alunni ormai adulti, di scoprire di non ricordare affatto le parole
memorabili che loro mi riferiscono o che agli episodi ritenuti da loro
significativi avevo dato al momento pochissima importanza e che quello che a
loro è rimasto veramente della
scuola era avvenuto, quasi sempre, fuori dalla scuola.
Mi capitò
una volta di dover interrompere la cerimonia di premiazione di un concorso di
poesia per scuole, che si svolgeva in uno storico teatro. Il conduttore
occupava da lungo tempo il palcoscenico, recitando in maniera trombonesca le
poesie dei bambini, che oltretutto, come scoprimmo dopo, aveva stravolto,
modificandole secondo i propri gusti e convenienze. Il pubblico era perplesso,
ma sottomesso, qualche bambino aveva i lucciconi. La misura fu colma quando il
"fine dicitore" decise di non far salire i ragazzi sul palcoscenico a
ritirare il premio, per proseguire nel suo show.
"Adesso
basta!" Esclamai, senza urlare, ma a voce abbastanza alta da ottenere il
silenzio (anni di esperienza in classe affinano la capacità
di cogliere l'attenzione). Chiamai i ragazzi e con loro conquistai il palco,
spiegando con parole semplici e categoriche, come doveva proseguire la
manifestazione da quel momento in poi.
Fu
un'azione d'impulso, dettata dalla rabbia per l'ingiustizia subita dai bambini,
un'azione tempestiva ed efficace, ma soprattutto fortunata: non c'era stato
nessun calcolo o premeditazione, poteva risolversi tutto in una scenata
imbarazzante o patetica, da vergognarsi per il resto della vita. Invece
un'assessora alla cultura abbastanza sveglia da cogliere l'occasione si
improvvisò maestra di cerimonia, premiò i ragazzi uno per uno facendo leggere
a chi voleva la propria composizione, si rallegrò con genitori ed insegnanti, si impegnò
perfino alla pubblicazione di tutte le poesie in un periodico del comune (e
mantenne anche la promessa).
Il
conduttore si allontanò offeso dalla sala, nell'indifferenza
generale, io ebbi il mio quarto d'ora di popolarità e la
serata finì in chiacchiere allegre nella piazza del paese. Un episodio di colore, una botta di vita;
poi, il giorno dopo, si torna a scuola,
al lavoro, a quello serio. E si dimentica.
Anni
dopo incontro casualmente Daniele, un mio ex alunno che adesso è
un giovane uomo. Ci salutiamo felici e leggermente imbarazzati, ripercorriamo i
ricordi comuni, ci scambiamo notizie sugli altri suoi compagni. Gli chiedo di
lui.
"Mi
sto laureando in matematica, suono il pianoforte. Faccio anche concerti."
Lo
ricordo bambino, attento, intelligente, silenzioso. Timido in maniera
paralizzante. Per sentire la sua voce avevo dovuto aspettare Natale, e le
parole che disse mi sfuggirono quasi tutte perché le pronunciò a
voce bassissima, guardando per terra. Feci finta di capirlo, sorrisi ed annuii.
Negli
anni successivi la situazione cambiò poco e lentamente. Daniele continuava
a studiare, leggere e imparare con grande profitto, e ad essere quasi
impermeabile al rapporto con gli altri.
Non
resisto a domandargli: "Come fai
agli esami e ai concerti? Come superi la timidezza?"
"È
facile, tutte le volte che ho paura penso a come hai fatto te, quella volta a
Monte San Savino..."
Orgoglio
naturalmente, e un groppo alla gola. Tutti e due ingiustificati forse: è
vero che gli incontri e gli episodi cambiano, e costruiscono, le vite, ma
questo è vero dovunque e per tutti, non solo a scuola e per gli
insegnanti.
Se
Daniele quel giorno non fosse stato a Monte San Savino avrebbe trovato
diversamente il modo di affrontare le sue fragilità,
magari il coraggio glielo avrebbe insegnato un autista del tram mettendo a
posto un automobilista prepotente o una signora capace di far rispettare agli
altri la fila all'ufficio postale...
Però
è anche vero che noi insegnanti abbiamo istituzionalmente il
compito di cambiare in meglio le vite degli alunni, siamo pagati per farlo, ci
si aspetta questo da noi. Se lo aspettano soprattutto i ragazzi, anche quando
sembrano essere lontanissimi, distratti, sordi. E se non lo facciamo, se almeno
non ci proviamo, ci restano male. Come Stellina, che voleva andare a caccia
perché lo aveva sentito
dire dal suo maestro.
(A proposito,
nessuno rimase a digiuno quella sera: un noto alimentarista di Grassina ci fornì
a domicilio un'abbondante cena, soluzione che forse Stella trovò
poco romantica, ma fu parecchio apprezzata da tutti).
Paolo Scopetani
Paolo Scopetani
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