lunedì 28 settembre 2015

Memorie di un maestro di campagna






"Maestro, ma stasera cosa si mangia?"
C'è sempre, in ogni classe, qualche alunno che ad un acuto senso di osservazione unisce uno spiccato senso pratico, e in effetti, anche se la colonica che ci ospita è gradevole ed accogliente, ad una sommaria ispezione il frigorifero si rivela malinconicamente vuoto.
"Adesso andiamo fuori e ci si procurerà qualcosa da mangiare cacciando..."
C'è sempre, in ogni classe, un insegnante che pensa di essere spiritoso.  

Questo scambio informale e fugace, fedelmente riportato, si svolgeva durante una gita di una seconda elementare, su una delle tante colline intorno a Firenze.
Il paesaggio era incantevole, la luce cristallina, la natura non sembrava matrigna ed il maestro archiviò velocemente il colloquio per proporre una passeggiata (secondo il programma che prevedeva "esplorazione d'ambiente").
Seguì un pomeriggio errante di giochi e corse tra boschi, prati, strade bianche, fontanili, campi, maneggi, ruderi, coloniche, vigne... Fino ad arrivare in fondo alla valle ed al ruscello, dove rimasero abbastanza a lungo perché molti rischiassero di cascarci dentro, un paio concretizzassero il rischio e tutti si bagnassero almeno le scarpe.
Poi, a febbraio le giornate sono corte, arrivò l'ora del tramonto e fu il momento di tornare; il bosco assomigliava a quello di Biancaneve, pieno di animali furtivi, fruscii, voli, tonfi, movimenti, occhi, scricchiolii.
Già in vista della casa il maestro si sentì prendere per mano da una bambina e pensò "È quasi buio, Stellina cerca protezione.."
Ma nell'altra mano la bambina stringeva risolutamente un bastone e fissandolo con occhi innocenti gli disse, con tono di rimprovero: "Maestro, ma ancora non abbiamo cacciato nulla!"

Poche parole che demoliscono in un attimo luoghi comuni e convinzioni radicate.
Prima di tutto, mai fidarsi delle bambine dolcissime, timide e con gli occhi da cerbiatta: di fronte alla prospettiva di restare senza cena sono disposte a rinunciare a qualsiasi proposito vegetariano, per diventare spietate cacciatrici (anche Diana era una tenera fanciulla).
E poi la ricorrente lamentela degli insegnanti: "I ragazzi sono distratti e superficiali, non stanno mai attenti, non ci ascoltano più..."
Invece i bambini ci ascoltano eccome! E stanno attentissimi alle nostre parole. Solo che ci ascoltano quando non ce lo aspettiamo, quando non vorremmo, magari quando non dovrebbero.  E poi interpretano quello che diciamo, lo travisano, gli inventano significati, a volte scoprendoci  a noi stessi, rivelandoci per qualcosa che non sapevamo di essere.
Non solo ci ascoltano, hanno così tanta fiducia in noi da prenderci alla lettera: Stella, una bambina spesso in disparte e chiusa nei suoi pensieri,  aveva ascoltato la mia insulsa battuta, che non era nemmeno rivolta a lei, ne aveva tratto logiche conclusioni, si era costruita aspettative e ora mi contestava la loro mancata realizzazione.
Quindi dovremmo stare più attenti a quello che diciamo (e facciamo) magari le nostre parole (e azioni) non riecheggeranno nei secoli (come quelle del "Gladiatore") ma una piccola eco, nelle menti e nelle vite dei nostri ragazzi, la lasceranno, in una misura che nessuno può prevedere a priori, e a partire dalle situazioni più inaspettate, perché, come diceva Gaber "la realtà è più avanti" e tentare di afferrarla nel momento che la viviamo è esercizio inutile, prima ancora che impossibile.
Infatti mi è capitato spesso, confrontando i miei ricordi con quelli dei miei ex alunni ormai adulti, di scoprire di non ricordare affatto le parole memorabili che loro mi riferiscono o che agli episodi ritenuti da loro significativi avevo dato al momento pochissima importanza e che quello che a loro è rimasto veramente della  scuola era avvenuto, quasi sempre, fuori dalla scuola.  

Mi capitò una volta di dover interrompere la cerimonia di premiazione di un concorso di poesia per scuole, che si svolgeva in uno storico teatro. Il conduttore occupava da lungo tempo il palcoscenico, recitando in maniera trombonesca le poesie dei bambini, che oltretutto, come scoprimmo dopo, aveva stravolto, modificandole secondo i propri gusti e convenienze. Il pubblico era perplesso, ma sottomesso, qualche bambino aveva i lucciconi. La misura fu colma quando il "fine dicitore" decise di non far salire i ragazzi sul palcoscenico a ritirare il premio, per proseguire nel suo show.
"Adesso basta!" Esclamai, senza urlare, ma a voce abbastanza alta da ottenere il silenzio (anni di esperienza in classe affinano la capacità di cogliere l'attenzione). Chiamai i ragazzi e con loro conquistai il palco, spiegando con parole semplici e categoriche, come doveva proseguire la manifestazione da quel momento in poi.
Fu un'azione d'impulso, dettata dalla rabbia per l'ingiustizia subita dai bambini, un'azione tempestiva ed efficace, ma soprattutto fortunata: non c'era stato nessun calcolo o premeditazione, poteva risolversi tutto in una scenata imbarazzante o patetica, da vergognarsi per il resto della vita. Invece un'assessora alla cultura abbastanza sveglia da cogliere l'occasione si improvvisò maestra di cerimonia, premiò i ragazzi uno per uno facendo leggere a chi voleva la propria composizione, si rallegrò con genitori ed insegnanti, si impegnò perfino alla pubblicazione di tutte le poesie in un periodico del comune (e mantenne anche la promessa).
Il conduttore si allontanò offeso dalla sala, nell'indifferenza generale, io ebbi il mio quarto d'ora di popolarità e la serata finì in chiacchiere allegre nella piazza del paese.  Un episodio di colore, una botta di vita; poi, il giorno dopo, si torna  a scuola, al lavoro, a quello serio. E si dimentica.

Anni dopo incontro casualmente Daniele, un mio ex alunno che adesso è un giovane uomo. Ci salutiamo felici e leggermente imbarazzati, ripercorriamo i ricordi comuni, ci scambiamo notizie sugli altri suoi compagni. Gli chiedo di lui.
"Mi sto laureando in matematica, suono il pianoforte. Faccio anche concerti."
Lo ricordo bambino, attento, intelligente, silenzioso. Timido in maniera paralizzante. Per sentire la sua voce avevo dovuto aspettare Natale, e le parole che disse mi sfuggirono quasi tutte perché le pronunciò a voce bassissima, guardando per terra. Feci finta di capirlo, sorrisi ed annuii.
Negli anni successivi la situazione cambiò poco e lentamente. Daniele continuava a studiare, leggere e imparare con grande profitto, e ad essere quasi impermeabile al rapporto con gli altri.
Non resisto a domandargli: "Come  fai agli esami e ai concerti? Come superi la timidezza?"
"È facile, tutte le volte che ho paura penso a come hai fatto te, quella volta a Monte San Savino..."
Orgoglio naturalmente, e un groppo alla gola. Tutti e due ingiustificati forse: è vero che gli incontri e gli episodi cambiano, e costruiscono, le vite, ma questo è vero dovunque e per tutti, non solo a scuola e per gli insegnanti.
Se Daniele quel giorno non fosse stato a Monte San Savino avrebbe trovato diversamente il modo di affrontare le sue fragilità, magari il coraggio glielo avrebbe insegnato un autista del tram mettendo a posto un automobilista prepotente o una signora capace di far rispettare agli altri la fila all'ufficio postale...
Però è anche vero che noi insegnanti abbiamo istituzionalmente il compito di cambiare in meglio le vite degli alunni, siamo pagati per farlo, ci si aspetta questo da noi. Se lo aspettano soprattutto i ragazzi, anche quando sembrano essere lontanissimi, distratti, sordi. E se non lo facciamo, se almeno non ci proviamo, ci restano male. Come Stellina, che voleva andare a caccia perché lo  aveva sentito dire dal suo maestro.
(A proposito, nessuno rimase a digiuno quella sera: un noto alimentarista di Grassina ci fornì a domicilio un'abbondante cena, soluzione che forse Stella trovò poco romantica, ma fu parecchio apprezzata da tutti).

Paolo Scopetani

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