lunedì 27 novembre 2017

Once upon a time


Caro Matteo,
alle elementari sono stato meno fortunato di te: avevo la scuola a due passi da casa e andare da solo dalla piazzetta di Rovezzano a quella della chiesa, dove si apriva il cancello di ingresso, non richiedeva alcun eroismo. Ma quando venne il momento di passare alla scuola media le cose cambiarono davvero.
La scuola media per me volle dire mettere i calzoni lunghi (due paia, uno aviazione e l'altro beige, tinte che mi sono rimaste indelebilmente addosso) e soprattutto prendere tutti i giorni il 34 per andare in centro, insieme ad un piccolo gruppo di amici.
Il primo giorno due compagne di un anno più grandi furono obbligate dalle mamme ad accompagnarci, sull'autobus ci presero in disparte e ci dissero:
“Bambini, per questa volta vi portiamo noi, ma guardate bene la strada perchè da domani non vi conosciamo nemmeno.”
E questo fu tutto quello che passò tra noi sull'argomento.
Scendevamo alla fermata di piazza Salvemini e per arrivare a scuola, all'angolo tra Borgo Pinti e via della Colonna, potevamo scegliere tra una miriade di alternative, nei giorni successivi le esplorammo tutte, come fossimo (e lo eravamo) in terre incognite.
Facemmo anche molte altre scoperte: il negozio dove trovare il materiale da disegno era in via de' Servi, quello per la divisa da ginnastica in piazza San Firenze, la tessera dell'autobus doveva essere richiesta in piazza del Duomo, ma i documenti necessari li consegnavano in palazzo Vecchio (ingresso via dei Leoni) e le foto tessera si facevano dal fotografo in via della Condotta. Per i libri poi bisognava arrivare fino in via San Gallo, da Le Monnier, o addirittura in via Laura, in una leggendaria libreria dell'usato...
La geografia della città si dipanava sotto i nostri passi di ragazzi, impegnati a compiere tutta una serie di doveri che i nostri genitori si guardavano bene dal risparmiarci. Un po' perché già occupati in tutt'altro, molto perché allora era normale che il cambiamento di scuola coincidesse con un diverso carico di responsabilità, che si poteva adempiere solo attraverso la conquista di maggiori spazi di autonomia. I patti erano chiari: “se sei capace di cavartela va bene, sennò ti arrangi e per noi va bene lo stesso”.
Tutti i giorni ci trovavamo di fronte a nuove “prove autentiche” (oggi le chiamiamo così) e non tutte ci procuravano ansia o fatica. Ad esempio non fu affatto sgradevole scoprire dove i nostri coetanei cittadini giocavano a pallone (in piazza D'Azeglio c'è ancora il campino dove sudavamo insieme). All'inizio non ci accettarono volentieri, ci consideravano un po' campagnoli, ma eravamo anche malandrini a sufficienza e per i maschi il calcio è un linguaggio universale, come la musica.
Quando era l'ora di tornare a casa prendevamo Borgo Pinti tutto a dritta, fino a sbarcare all'Arco di San Pierino, luogo di dubbia fama. Ci passavamo sotto stringendo impercettibilmente le fila e affrettando il passo, ci piaceva quella leggera sensazione di pericolo che ci faceva sentire più grandi e “...delli vizi umani esperti e del valor...” Con il tempo trovammo anche sufficiente coraggio per fermarci all'ombra dell'arco a comprare nella vecchia friggitoria coccoli e polenta fritta, avvolta nella carta gialla da macellaio.
Sull'autobus era considerato un disonore arreggersi agli “appositi sostegni”. La sfida consisteva nell'effettuare tutto il percorso di ritorno rimanendo in equilibrio, senza appoggiarsi ad alcunché.
La vetture erano verdi e rumorose, non avevano mai gli ammortizzatori scarichi, perchè penso non li avessero proprio, le strade erano tappezzate di buche, gli autisti prendevano le curve ad una velocità che oggi comporterebbe il ritiro immediato della patente.
Il bigliettaio osservava, più o meno benevolo, le nostre evoluzioni dall'alto della sua postazione strategica, il pollice inguainato nel ditale di gomma appoggiato al grosso blocco dei biglietti (40 lire l'uno).
Se esageravamo con gli schiamazzi o l'autobus era troppo affollato ci faceva scorrere avanti con un'alzata di sopracciglia e poche eloquenti parole. Quando gli passavamo davanti lo scappellotto era un prezzo ragionevole, da accettare senza fare storie in cambio dell'indulgenza mostrata fino a quel momento
Così la comunità dei piccoli (non più tanto piccoli) e quella dei grandi procedevano parallele, contigue e apparentemente estranee. Avevamo la sensazione di essere costantemente liberi nelle scelte dei percorsi e delle azioni.
Ripensandoci ora credo invece ci fossero innumerevoli sguardi a tutela della nostra vita di ragazzi, almeno di quella “ufficiale”, come nel caso del percorso casa/scuola.

Oggi la questione è diventata oggetto di una sentenza della corte di Cassazione, le motivazioni giuridiche saranno senz'altro fondate e inattaccabili, ma questo non toglie che il fatto sembri offendere il buon senso, e provochi nei ragazzi di ieri una leggera tristezza.

Paolo Scopetani

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