Caro Matteo,
alle elementari sono stato meno
fortunato di te: avevo la scuola a due passi da casa e andare da solo
dalla piazzetta di Rovezzano a quella della chiesa, dove si apriva il
cancello di ingresso, non richiedeva alcun eroismo. Ma quando venne
il momento di passare alla scuola media le cose cambiarono davvero.
La scuola media per me volle dire
mettere i calzoni lunghi (due paia, uno aviazione e l'altro beige,
tinte che mi sono rimaste indelebilmente addosso) e soprattutto
prendere tutti i giorni il 34 per andare in centro, insieme ad un
piccolo gruppo di amici.
Il primo giorno due compagne di un anno
più grandi furono obbligate dalle mamme ad accompagnarci,
sull'autobus ci presero in disparte e ci dissero:
“Bambini, per questa volta vi
portiamo noi, ma guardate bene la strada perchè da domani non vi
conosciamo nemmeno.”
E questo fu tutto quello che passò tra
noi sull'argomento.
Scendevamo alla fermata di piazza
Salvemini e per arrivare a scuola, all'angolo tra Borgo Pinti e via
della Colonna, potevamo scegliere tra una miriade di alternative, nei
giorni successivi le esplorammo tutte, come fossimo (e lo eravamo) in
terre incognite.
Facemmo anche molte altre scoperte: il
negozio dove trovare il materiale da disegno era in via de' Servi,
quello per la divisa da ginnastica in piazza San Firenze, la tessera
dell'autobus doveva essere richiesta in piazza del Duomo, ma i
documenti necessari li consegnavano in palazzo Vecchio (ingresso via
dei Leoni) e le foto tessera si facevano dal fotografo in via della
Condotta. Per i libri poi bisognava arrivare fino in via San Gallo,
da Le Monnier, o addirittura in via Laura, in una leggendaria
libreria dell'usato...
La geografia della città si dipanava
sotto i nostri passi di ragazzi, impegnati a compiere tutta una serie
di doveri che i nostri genitori si guardavano bene dal risparmiarci.
Un po' perché già occupati in tutt'altro, molto perché allora era
normale che il cambiamento di scuola coincidesse con un diverso
carico di responsabilità, che si poteva adempiere solo attraverso la
conquista di maggiori spazi di autonomia. I patti erano chiari: “se
sei capace di cavartela va bene, sennò ti arrangi e per noi va bene
lo stesso”.
Tutti i giorni ci trovavamo di fronte a
nuove “prove autentiche” (oggi le chiamiamo così) e non tutte ci
procuravano ansia o fatica. Ad esempio non fu affatto sgradevole
scoprire dove i nostri coetanei cittadini giocavano a pallone (in
piazza D'Azeglio c'è ancora il campino dove sudavamo insieme).
All'inizio non ci accettarono volentieri, ci consideravano un po'
campagnoli, ma eravamo anche malandrini a sufficienza e per i maschi
il calcio è un linguaggio universale, come la musica.
Quando era l'ora di tornare a casa
prendevamo Borgo Pinti tutto a dritta, fino a sbarcare all'Arco di
San Pierino, luogo di dubbia fama. Ci passavamo sotto stringendo
impercettibilmente le fila e affrettando il passo, ci piaceva quella
leggera sensazione di pericolo che ci faceva sentire più grandi e
“...delli vizi umani esperti e del valor...” Con il tempo
trovammo anche sufficiente coraggio per fermarci all'ombra dell'arco
a comprare nella vecchia friggitoria coccoli e polenta fritta,
avvolta nella carta gialla da macellaio.
Sull'autobus era considerato un
disonore arreggersi agli “appositi sostegni”. La sfida consisteva
nell'effettuare tutto il percorso di ritorno rimanendo in equilibrio,
senza appoggiarsi ad alcunché.
La vetture erano verdi e rumorose, non
avevano mai gli ammortizzatori scarichi, perchè penso non li
avessero proprio, le strade erano tappezzate di buche, gli autisti
prendevano le curve ad una velocità che oggi comporterebbe il ritiro
immediato della patente.
Il bigliettaio osservava, più o meno
benevolo, le nostre evoluzioni dall'alto della sua postazione
strategica, il pollice inguainato nel ditale di gomma appoggiato al
grosso blocco dei biglietti (40 lire l'uno).
Se esageravamo con gli schiamazzi o
l'autobus era troppo affollato ci faceva scorrere avanti con
un'alzata di sopracciglia e poche eloquenti parole. Quando gli
passavamo davanti lo scappellotto era un prezzo ragionevole, da
accettare senza fare storie in cambio dell'indulgenza mostrata fino
a quel momento
Così la comunità dei piccoli (non più
tanto piccoli) e quella dei grandi procedevano parallele, contigue e
apparentemente estranee. Avevamo la sensazione di essere
costantemente liberi nelle scelte dei percorsi e delle azioni.
Ripensandoci ora credo invece ci
fossero innumerevoli sguardi a tutela della nostra vita di ragazzi,
almeno di quella “ufficiale”, come nel caso del percorso
casa/scuola.
Oggi la questione è diventata oggetto
di una sentenza della corte di Cassazione, le motivazioni giuridiche
saranno senz'altro fondate e inattaccabili, ma questo non toglie che
il fatto sembri offendere il buon senso, e provochi nei ragazzi di
ieri una leggera tristezza.
Paolo Scopetani
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