Cristina non è solo una collega competente e professionale,
ma anche la responsabile/ideatrice del nostro progetto di educazione affettiva,
e una persona molto accogliente, che ha fatto del capire e aiutare gli altri un
mestiere praticato a lungo con passione e intelligenza.
Eppure il suo sguardo è insolitamente disorientato quando la
incontro in giardino durante l'intervallo.
“Mi devo sfogare con qualcuno, i bambini non mi ascoltano
più, non riesco a farli stare attenti, le parole scivolano su di loro come
pioggia sui tetti... spiego più volte le prove, anche ad uno per volta...
dicono sempre di aver capito e poi continuano a fare errori incomprensibili...”
Annuisco in silenzio perchè non so cosa dirle, ho il suo
stesso problema e a quanto mi risulta anche gli altri colleghi della nostra
scuola.
I ragazzi sono svegli, veloci, brillanti e simpatici,
senz'altro intelligenti; si mostrano incontenibili nella narrazione delle loro
esperienze (e sordi ai racconti altrui) molto competenti nell'esprimere i
propri bisogni (e disarmati di fronte alla prospettiva che i compagni ne
abbiano di personali) precocemente dialettici nell'affermare i propri punti di
vista (e incapaci di prendere in considerazione l'idea che possano essercene
altri) capaci di associazioni libere degne di spericolati acrobati (e inadatti
a seguire un filo logico elementare nelle discussioni collettive)...
Soprattutto appaiono refrattari a qualsiasi tipo di ascolto, legato a consegne
o istruzioni di tipo strettamente tecnico/scolastico, impartite dagli
insegnanti.
Le conseguenze di questo atteggiamento assumono talvolta
contorni di comicità involontaria.
Ad esempio so benissimo che se chiedo di eseguire
un'operazione (anche semplice) che preveda vari step, già a metà
dell'enunciazione del secondo i pensieri dei bambini stanno galoppando, o
volteggiando, lontano... anche se i loro occhi continuano a fissarmi con
un'ingannevole luce di benevolenza.
Poi, quando do il via all'esecuzione del compito, si scatena
la tempesta delle domande, perlopiù assolutamente non pertinenti, delle azioni
illogiche e inefficaci, se non dannose, o del semplice continuare a fare quello
che più desiderano, senza porsi il problema di quanto gli è stato appena
chiesto.
In una situazione del genere gli insegnanti, per reagire
alla frustrazione, sono soliti alzare la voce, visto che non possono alzare le
mani, ma il risultato è solo quello di aumentare la confusione, producendo
oltretutto danno alla propia immagine, di persone e di educatori.
Meglio allora respirare profondo e andare alla ricerca delle
cause del fenomeno.
“ Scilla, ho chiesto a tutti di prendere il fascicolo di
italiano, metterci l'ultima scheda fatta, portarlo nello zaino e tornare al
proprio posto... mi spieghi allora perchè stai disegnando?”
Alza su di me i suoi incredibili, grandissimi occhi con gli
angoli rivolti all'ingiù. È un'impressione sbagliata o in fondo al suo sguardo
guizza una piccola luce canzonatoria?
Stiamo così in silenzio a fissarci per alcuni interminabili
secondi, non mi risponde, non con le parole almeno, ed alla fine sono io che mi
stacco dal muto colloquio.
Probabilmente sbaglio ma la risposta che ho letto in quel
lungo imbarazzante sguardo è:
“ Lo hai chiesto a tutti, ma non a me, io sono Scilla, mica
tutti!”
O forse il messaggio era ancora più semplice:
“ Sto disegnando perchè ora mi va di farlo!”
Ma queste sono solo proiezioni mie, l'unica sicurezza che mi
rimane è la mancanza di un livello basico di comunicazione condiviso. La verità
è che io e Scilla parliamo due lingue diverse, senza apparenti punti di
contatto.
Qualcosa che a scuola non possiamo permetterci, e allora
parto di nuovo alla caccia delle ragioni e delle responsabilità'.
“ ...La digitalizzazione sta cambiando i processi di
pensiero della razza umana, siamo di fronte ad una rivoluzione dagli effetti
imprevedibili e devastanti. È chiaro che i bambini stiano perdendo le capacità
di ascolto: avete visto le famiglie ai tavoli dei ristoranti? Ognuno
ipnotizzato dal proprio maledetto display luminoso...”
La tentazione di attribuire tutte le colpe al nuovo Satana
tecnologico è forte, ma non voglio cedere troppo facilmente ai miei pregiudizi
di insegnante irrimediabilmente vintage e credo che i problemi complessi non
abbiano spiegazioni semplici. E tantomeno soluzioni facili.
Chi propone soluzioni facili nel migliore dei casi è un
illuso, nel peggiore un imbroglione, cerchiamo quindi di essere raffinati ed
onesti (o di sembrarlo).
“...Forse pretendere che i figli del terzo millennio stiano
allineati e coperti come tanti soldatini, senza capirne le ragioni, è una
richiesta eccessiva. Noi lo facevamo, loro sono più avanti. Invece di
chiedergli un'attenzione acritica sarebbe meglio lavorare sulle motivazioni,
proporre le situazioni in maniera problematica, sottoporli a prove autentiche
in modo che siano loro stessi a mettere in atto i processi necessari a trovare
le vie d'uscita...”
“...Vabbè! Ora non pecchiamo di eccessivo intellettualismo
pseudodemocratico... non posso certo indire un'assemblea costituente tutte le
volte che Gianni si alza per andare in bagno (per la terza volta nell'ultima
mezzora) proprio mentre inizio a spiegare la prova che dovrà eseguire nei 45
minuti di lezione che restano!...”
Il dibattito dentro di me è arrivato a questo punto quando
le adenoidi cantilenanti di Tommi interrompono i miei pensieri:
“Maestro stasera esco prima perchè ho il saggio di
pianoforte...”
Mi riscuoto e gli accarezzo leggermente la testa.
“ Ah sì? Bravo Tommi! Non sapevo che tu sapessi suonare il
pia...”
Gli occhi mi si accendono e forse non è solo la luce che
entra dalle orecchie.
Tommi è il bambino più piccolo della classe, non ha ancora 7
anni, un biondino minuscolo, tenerissimo, dispettoso; mai fermo, tranne quando
si spenge improvvisamente come sanno fare solo i neonati.
Non sa ancora allacciarsi le scarpe ed ha grossi problemi a
trovarsi il naso quando deve soffiarselo, eppure sa già leggere ed eseguire uno
spartito di Mozart...
Nell'epoca delle strumentazioni analogiche questo si sarebbe
chiamato “mettere il carro avanti ai buoi”. Nell'era digitale non so come
potremmo definirlo, ma ho il sospetto che la questione sia collegata
all'apparente calo delle capacità attentive delle nuove generazioni.
Dovrò parlarne con Cristina e con gli altri, insieme
potremmo tirar fuori qualcosa di buono da questo abbozzo di idea... e voi che
ne pensate?
Ciao Paolo, quello che suggerisci tra le righe, e neppure tanto, non può che tornarmi. L'iperstimolazione porta ad un allontanamento dal qui ed ora. L'assenza di noia, soffoca la capacità di desiderare. Forse la cosa su cui siamo meno impotenti è il costruire una comunità. Ogni famiglia è un insieme a sé stante e isolato, la rete non esiste più, oratori e case del popolo lasciamo stare.
RispondiEliminaSecondo me ha tutto a che vedere con quello che scrivi perchè queste famiglie isole/isolate fanno quello che possono e compensano in solitudine. Un modo per vivere (o sopravvivere?) nel mondo sono le attività, sembra di fare qualcosa e in realtà sto facendo strabordare il bicchiere. A chi servono le attività?
Non ragiono con i sensi di colpa o le accuse. Trovo importante che la scuola e la comunità si facciano delle domande per scegliere. In un posto come dovrebbe essere scuola città è ancora di più così, sicuramente una dimensione da ritrovare.
Caro Paolo e cari colleghi tutti, potrei essere d'accordo con tutte le chiavi di lettura proposte e anche qualcuna in più, se me la proponeste. Tutti noi misuriamo questo disagio di comunicazione inefficace, dentro e fuori Scuola-città. Qualche volta ho l'impressione che sia un problema di ridondanza verbale. Vorrei essere come quei maestri bravi e carismatici, quelli a cui bastano 2 secche frasi per ottenere l'esecuzione del compito. A pensarci bene, noi eravamo alunni così, non è che la mia maestra si spendesse tanto per tutti democraticamente, lei discriminava e aiutava e incoraggiava quelle che meno avevano bisogno. Trasparente mi faceva sentire la mia maestra, e non ero l'unica. Così quelle come me, che non capivano un'acca di matematica, erano costrette a cercare strategie personali, di qualsivoglia genere, per cavarsela. Ecco forse a questi bambini manca un vero motivo per arrangiarsi. Chi glielo fa fare? Tanto sanno che tu ti sgolerai per portarli verso di te, qualunque sia il tuo stile di insegnante, sanno di poter contare su una certa benevolenza di fondo. Perché dovrebbero sollecitare la propria attenzione, perché interrogare se stessi quando intorno è pieno di gente che lo fa per te e su di te? Certo non si può mica tornare indietro! Mica possiamo rispolverare vecchi modelli pedagogici, come se tutto quello fatto nel frattempo sia da buttare via..no, eppure..per alcuni aspetti sembravano funzionare meglio. Ho però l'impressione che necessitiamo di recuperare una certa essenzialità, misura, scremare un po' la folla di pensieri e dirigere la nostra attenzione verso qualcosa di definitivamente perso, eppure vitale: la condizione del principiante, del debuttante assoluto. A questi bambini abbiamo tolto forse questo, muniti di mezzi tecnologici e bombardati di visioni, immagini e altro, imboniti di discorsi, parole e interpretazioni, abbiamo tolto la capacità di stare con la mente e il cuore aperti, fragili e vulnerabili. Così non c'è possibilità di esplorare il mondo come un principiante, a 6 anni sono già esperti di tanto, hanno provato e saggiato un sacco di roba, salvaguardati dai fallimenti di continuo, come possono pensare che dai loro limiti possa scaturire una passione vitale? Questo ti arriva solo se pratichi un'esperienza fino in fondo, se stai dentro un gesto che ti conduce senza dover dimostrare niente a nessuno. Ma davvero noi possiamo offrire questo a scuola? Per quanto aperta e sperimentale, sempre dovremo andare in cerca della gloria del risultato, per quanto possibile. Così i bambini perdono l'occasione di sperimentare in verticale, piuttosto che su una direzione orizzontale, fatta di una rete di maglia fitta, tira da tutte le parti. Infatti Scilla disegnava, a contatto con il suo Sè profondo, direbbe la nostra collega Cristina. Meno male che Tommi suona il piano, altra occasione per andare dentro un mondo in cui puoi precipitare, e Mozart te lo puoi anche dimenticare.. suonandolo. Ecco, in realtà credo che i bambini avrebbero bisogno di fare esperienze in cui lasciarsi cadere, a rischio di capitomboli, ma vibrando di emozione. Esplorare con una mente sensibile ed intuitiva, si possono sfiorare anche i propri limiti così, chissà che non si scopra quanto di meglio ci appartiene, quanto è vitale e ricco di fermenti la consapevolezza di essere arrivati ...proprio da nessuna parte.
RispondiEliminaCaro Paolo, mi ha colpito molto quanto è stato scritto nel commento precedente di Paolo Molino: non esistono più oratori e case del popolo. Come tu sai la mia prima esperienza nelle scuole è stata in un paese di campagna dove l'oratorio e la casa del popolo sono frequentati da tutti, dove i ragazzi fanno corse pazze in bicicletta e giocano a calcio nella strada di fronte a casa. Dove incontrano abitualmente stranieri, ma non si tratta di americani colti con la passione per l'arte rinascimentale, ma di ragazzi che vengono da paesi difficili e che sanno che la scuola e lo studio li renderanno liberi. Ebbene, quando sono entrata nelle loro classi mi sono trovata di fronte orecchie aperte, assetate di novità, menti fresche e tanta voglia di collaborare. Poi ho iniziato a frequentare le scuole di città, non solo la tua, famosa per le interessantissime proposte educative, e il mio lavoro improvvisamente non mi sembrava più così interessante e innovativo, i ragazzi non erano altrettanto entusiasti.
RispondiEliminaPerò io sono convinta che i ragazzi di città, i tuoi ragazzi, sono già pronti per affrontare questo mondo iperveloce, iperconnesso, ipertecnologico, iperstimolante e che loro sì saranno stare al passo. Ai miei ragazzi di campagna non sono certa che possa risultare altrettanto facile, anche se forse proveranno ancora il piacere di stupirsi delle piccole cose.
Serena
Carissimo Paolo, innanzitutto desidero ringraziarti per aver voluto condividere in modo così vivido le tue esperienze professionali, mettendoti, almeno mentalmente, a nudo, rendendoci così partecipi dei tuoi vissuti interiori.
RispondiEliminaDevo confessare che tue osservazioni mi toccano molto da vicino, avendo a che fare anch’io con una “Scilla” (anzi con due). E anch’io vivo quotidianamente la schiacciante frustrazione di non essere capito, compreso, ascoltato e tanto meno rispettato. Fortunatamente ho imparato a farmene una ragione. Anche io tutti i giorni, mi struggo nel tentativo di rispondermi alla fatidica domanda di essere o meno un buon genitore, un modello accettabile, una presenza importante nella vita dei miei figli capace di dosare e disciplinare con saggezza, autorità e autorevolezza. Domandandomi se il mio operato otterrebbe mai una sufficienza piena. La mia di Scilla, si comporta esattamente come la tua ed io provo gli stessi o molto simili sentimenti di frustrazione che provi te. La ripudiata espressione “Mal comune mezzo gaudio” una volta tanto, lenisce la mia paura di non essere stato il solo all’altezza di un compito prefisso. Non oso neanche immaginare quanto sconfortante possa essere moltiplicare il mio sconforto per venti. Un vecchio presidente della Volkswagen, a proposito del traffico, era solito rammentare: “Tu non sei in coda. Tu sei la coda”. In altri termini chiunque di noi fa parte del problema. Utilizzo il termine problema per puro amore di sintesi. Guardare con gli occhi di ieri la realtà di oggi forse è un esercizio improprio. Forse proprio sotto i nostri, inutilmente vigili, occhi, in pochi decenni il triangolo relazionale insegnanti-bambini-genitori ha subito un cambio di paradigma. Probabilmente non ci sono colpe da addossare e forse nemmeno ragioni da attribuire. Non so quanto valga la pena dannarsi per afferrare la causa scatenante, prima o ultima che sia. È successo e basta. Impariamo piuttosto a goderci il risultato di questa trasformazione/rivoluzione generazionale. Niente sarà più come prima. I “soldatini allineati e coperti” che fummo non ci sono più. E aggiungo fortunatamente. Concludo questo mio esondante commento scomodando Proust, il quale asseriva che “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Ecco, forse quello che dobbiamo fare è provare a cambiare punto di vista.
Roberto
Carissimo Paolo, innanzitutto desidero ringraziarti per aver voluto condividere in modo così vivido le tue esperienze professionali, mettendoti, almeno mentalmente, a nudo, rendendoci così partecipi dei tuoi vissuti interiori.
RispondiEliminaDevo confessare che tue osservazioni mi toccano molto da vicino, avendo a che fare anch’io con una “Scilla” (anzi con due). E anch’io vivo quotidianamente la schiacciante frustrazione di non essere capito, compreso, ascoltato e tanto meno rispettato. Fortunatamente ho imparato a farmene una ragione. Anche io tutti i giorni, mi struggo nel tentativo di rispondermi alla fatidica domanda di essere o meno un buon genitore, un modello accettabile, una presenza importante nella vita dei miei figli capace di dosare e disciplinare con saggezza, autorità e autorevolezza. Domandandomi se il mio operato otterrebbe mai una sufficienza piena. La mia di Scilla, si comporta esattamente come la tua ed io provo gli stessi o molto simili sentimenti di frustrazione che provi te. La ripudiata espressione “Mal comune mezzo gaudio” una volta tanto, lenisce la mia paura di non essere stato il solo all’altezza di un compito prefisso. Non oso neanche immaginare quanto sconfortante possa essere moltiplicare il mio sconforto per venti. Un vecchio presidente della Volkswagen, a proposito del traffico, era solito rammentare: “Tu non sei in coda. Tu sei la coda”. In altri termini chiunque di noi fa parte del problema. Utilizzo il termine problema per puro amore di sintesi. Guardare con gli occhi di ieri la realtà di oggi forse è un esercizio improprio. Forse proprio sotto i nostri, inutilmente vigili, occhi, in pochi decenni il triangolo relazionale insegnanti-bambini-genitori ha subito un cambio di paradigma. Probabilmente non ci sono colpe da addossare e forse nemmeno ragioni da attribuire. Non so quanto valga la pena dannarsi per afferrare la causa scatenante, prima o ultima che sia. È successo e basta. Impariamo piuttosto a goderci il risultato di questa trasformazione/rivoluzione generazionale. Niente sarà più come prima. I “soldatini allineati e coperti” che fummo non ci sono più. E aggiungo fortunatamente. Concludo questo mio esondante commento scomodando Proust, il quale asseriva che “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Ecco, forse quello che dobbiamo fare è provare a cambiare punto di vista.
...ormai troppo spesso e in troppe occasioni lew PAROLE sono diventate contenitori vuoti. Non veicolano più un significato, un senso, un messaggio. Per questi aspetti ci sono le IMMAGINI, i SUONI, il MOVIMENTO. Questo trasferimento di MEZZO rende faticosa l'interpretazione, l'interiorizzazione e a volte il semplice ascolto stesso di un discorso. Sia esso scritto o peggio orale (lo scritto se moi concentro posso rileggerlo più volte, la comunicazione orale e il dialogo richiedono l'esser presente a se stessi e la necessità di includere pure l'altro! il non-io! Sai che fatica...) Pierino
RispondiEliminaCiao,segnalo questo esperimento inglese che si propone, attraverso l'osservazione e la relazione con un neonato a scuola, di far raggiungere ai bambini l empatia con l'altro,e la consapevolezza del ruolo di cura e ascolto dell.altro.
RispondiEliminahttps://youtu.be/TH5mmBEMavI
Hontrovato delicato cercare una soluzione portando l'essenza delle cose della vita con la loro semplicità e complessità insieme dentro la.classe. scusate gli errori,non vedo bene.