Sono
stato chiamato maestro per la prima volta a Bagno a Ripoli, nel
novembre del 1975, quando gli istituti comprensivi si chiamavano
circoli didattici.
Il
circolo è una figura simpatica, egualitaria e accogliente;
l’istituto, anche se comprensivo, richiama alla memoria una
struttura formale, se non costrittiva.
Avevo
nove anni più degli alunni che mi scrutavano con curiosità e non si
può dire che fossi arrivato fin lì seguendo una vocazione.
Più
prosaicamente accettai la prima supplenza per seguire una ragazza che
mi piaceva parecchio; lei prese poi altre strade, in compenso mi
aveva portato nel Paese dei Balocchi e fatto conoscere Marcello
Trentanove, un Mangiafoco capace di incatenarmi alla "sua
scuola" con l'eleganza dei congiuntivi messi al punto giusto.
Ancora
non lo sapevo, ma nella "Libera Repubblica di Bagno a Ripoli",
come ebbe a definirla il provveditore dell'epoca, era in corso una
rivoluzione tanto gentile quanto radicale, ed io ci inciampai proprio
quando stava vivendo il suo momento più esaltante.
Negli
anni precedenti Marcello (l'ho sempre sentito chiamare solo così, da
tutti, quasi che il suo nome fosse un titolo e non esistessero altri
Marcello con i quali confonderlo) aveva raccolto intorno a sé un
gruppo di giovani insegnanti, entusiasti e preparati, per costruire,
primo in Italia, una scuola a "tempo pieno".
Quando
mi affacciai da quelle parti scoprii una comunità di famiglie,
operatori scolastici, studiosi, amministratori, associazioni,
semplici cittadini, che aveva al suo centro la "scuola"
come motore culturale e legame emotivo, luogo degli apprendimenti e
degli affetti, tempo del sapere e del gioco.
Una
vera, colorata "res publica", il sarcasmo del provveditore
Baldassarre Gullotta aveva involontariamente colto nel segno.
Il
provveditore era “colui che doveva provvedere”, il nome
sottintendeva un ruolo provvidenziale, e se era il caso potevi
cercarlo per chiedergli conto, andare sotto le sue finestre e
contestarlo anche. Oggi le sue funzioni sono state avocate
dall’U.S.P, dall’U.S.R. dal MIUR, dall’INDIRE come si può
rapportarsi con sigle lontane e in frenetico mutamento?
Le
radici culturali che sottintendevano le scelte didattiche del circolo
erano vastissime, il dibattito vivace, le occasioni di formazione
continue. Ma io, capitato lì quasi per caso, rimasi abbagliato prima
di tutto dal divertimento, dall'allegria, dall'informalità, dalla
passione, dall'energia con cui le "equipe" degli insegnanti
lavoravano.
Marcello
era il nostro direttore didattico e "nomen omen".
Il
direttore era colui che dava la direzione, il timoniere che vedeva
più lontano e sapeva dove arrivare. Oggi li hanno sostituiti con i
dirigenti scolastici, una definizione che sembra richiamare qualcuno
che dirige il traffico delle pratiche sulla propria scrivania.
Quando
Marcello mi accompagnò nella classe di cui mi diede la
responsabilità per un intero anno colse perfettamente l’ansia che
mi prese nel varcare la porta. Si fermò appena un attimo, mi guardò
dritto negli occhi e disse soltanto:
“...impareranno
malgrado noi...”
Non
ci fu bisogno d’altro. La leggerezza e la fiducia che mi regalò
con quella “picciola orazione” non mi hanno più
abbandonato. incominciava un’avventura che non potevo immaginare
migliore, così divertente che al momento di riscuotere lo stipendio
dovevo vincere un senso di sorpresa: "...ma come, mi pagano
anche?"
Quali
erano le componenti che rendevano quel tipo di scuola così attraente
da provocarmi un imprinting indelebile? Qual è la ragione che mi
fece restare, per provare a diventare davvero un maestro?
Pensandoci
ora, ma al momento non mi feci molte domande, ci sono almeno due
motivi che ne comprendono molti altri.
La
sensazione di far parte di un movimento capace di produrre libertà e
cambiare il mondo a partire dalla scuola, il luogo dove la vita
cresce, mi faceva sentire importante.
L'idea
di poterlo fare con un gruppo di amici, praticando la fantasia, la
curiosità, il gioco, l'intelligenza, la tenerezza, mi rendeva
felice.
Giovani,
importanti e felici. Si poteva chiedere di più?
Certo
che si poteva, per rendere tutto più appassionante ci voleva un
nemico, potentissimo, accampato sotto il nostro stesso tetto: la
scuola tradizionale, quella della sola mattina, che tutti avevamo
frequentato e continuava ad essere in Italia un modello praticamente
unico.
Il
circolo didattico di Bagno a Ripoli era infatti spaccato a metà tra
le variopinte classi a tempo pieno e quelle tradizionali, con i
ragazzi inappuntabili nei loro grembiuli forniti di regolamentari
fiocchi.
L'inevitabile
rivalità all'interno del gruppo dei docenti aggiungeva sale alle
nostre giornate e infiammava i collegi dei docenti.
Campione
indiscusso della "vecchia scuola" era la maestra Tomasi
Néra Pacileo, maestosa, appesantita dall'età, sempre drappeggiata
in vestiti di seta nera. La lentezza faticosa con cui attraversava i
corridoi della scuola aggiungeva, anziché togliere, regalità al suo
incedere. Passava agitando mollemente un ventaglio e, senza posare lo
sguardo su nessuno, declamava con nonchalanche endecasillabi
danteschi. Quando incontrava un militante del tempo pieno dimostrava
una particolare predilezione per quelli dedicati agli ignavi: “non
ti curar di lor, ma guarda e passa”.
La
sua cattedra era l'unica ad aver mantenuto la pedana; tutte le altre,
ridipinte di colori vivaci, erano diventate tavoli per la scuola
dell'infanzia.
Nèra,
dopo essersi lentamente issata sulla pedana e accomodata sulla sedia,
prendeva a dirigere la sua scolaresca come un'ape regina potrebbe
dirigere un'arnia.
Gli
alunni, disposti nelle fila regolari dei banchi, sembravano legati a
lei da una ragnatela invisibile (che fosse un ragno invece di
un'ape?). A cadenze regolari si alzavano trasformandosi in un
corteo di diligenti formiche pronte a consegnare il proprio raccolto
alla matriarca (formica regina?). Lei rimaneva al centro,
imperturbabile, a dispensare con la stessa serenità premi e castighi
in forma di voti inappellabili.
Rappresentava
l'esatto contrario dei nostri ideali e del nostro agire, ma
affacciandosi alla sua classe era difficile non riconoscerle una
evidente grandezza: come riusciva a mantenere un controllo così
completo sui ragazzi? Con quale trucco li rendeva immobili e
silenziosi? Le ritmiche giaculatorie che filtravano dietro la porta
del suo regno erano lezioni o incantesimi? (Che fosse una maga?).
Di
sicuro funzionavano perché i risultati scolastici della maggior
parte dei suoi allievi erano ottimi, se non eccellenti.
Poi
le capitò di ammalarsi e per una settimana toccò a me sostituirla.
Ebbi le chiavi del sancta sanctorum, ma non quelle del cassetto dove
teneva accuratamente custoditi registro, compiti, schede, programmi
di lavoro, guide... e chissà sa quali altri segreti sortilegi.
Mi
sedetti dietro una cattedra e assaporai la vertigine del potere
assoluto. I ragazzi mi guardavano inespressivi, anch'io non sapevo
cosa dirgli e ci volle poco a capire che in quel ruolo non ero
credibile.
Scesi
e mi misi a girare per i banchi controllando da vicino il loro
lavoro, cercai di movimentare le lezioni, introdussi qualche timido
cambiamento nell'ordine prestabilito delle loro mattine, li portai
addirittura in giardino. Ma non credo di aver inciso sull'idea che si
erano fatti della scuola o di avergli davvero mostrato una possibile
alternativa. Anche se ne avessi avuto le capacità (e non le avevo)
non mi sarebbe bastato il tempo, e la maestra Tomasi Néra Pacileo
era persona da far tremare i polsi a gente molto più tosta di un
supplente alle prime esperienze.
Ma
una piccola grande vittoria la riportai, e ne fui meschinamente
orgoglioso.
C'era
una bambina in uno degli ultimi banchi con il quaderno pieno di
errori e parole illeggibili. Notai che cercando di copiare dalla
lavagna strizzava leggermente gli occhi, le chiesi se vedeva quello
che avevo scritto, lei rispose di sì, troppo precipitosamente.
Con
una scusa le cambiai posto, mettendola nel banco immediatamente sotto
alla lavagna.
Molti
errori sparirono, la grafia si fece più chiara.
All'uscita
chiamai la sua mamma e con l'impudenza della gioventù le dissi che
doveva portare la figlia a fare degli occhiali.
Lei
mi guardò con un inizio irritazione: "La maestra non mi ha
detto nulla!"
"Strano,
io me ne sono accorto subito!" Vanesio e insinuante.
Una
settimana dopo vidi la bambina indossare con grazia un paio di
occhiali con la montatura di celluloide rosa e scoprii che la maestra
Pacileo le aveva anche fatto guadagnare qualche posto nella fila dei
banchi.
Avrei
dovuto inorgoglirmi, ma in qualche modo sentivo che sarebbe stato
sbagliato, infatti non feci parola dell'accaduto a Marcello.
Adesso
so perché, e mi sembra di sentirlo:
"...hai
nutrito solo il tuo narcisismo e per farlo hai screditato una collega
di fronte ai genitori. Néra è anziana e ci vede pochissimo, dovevi
dire a lei quello di cui ti eri accorto, e stai sicuro che non si
sarebbe appropriata di nessun merito. Anzi ti avrebbe stimato un po'
di più, forse saresti passato dal girone degli ignavi al primo
circolo del Purgatorio..."
Il
riconoscimento dei meriti di ciascuno non può passare dal discredito
gettato su altri.
Questo
è uno degli innumerevoli lasciti di Marcello, che credo non abbia
mai scritto i suoi precetti, li ha solo incessantemente praticati.
È
stato un intellettuale capace di finissime operazioni di pensiero, ma
ha sempre privilegiato l'azione e i rapporti umani, senza i quali il
pensiero è niente:
“...non
insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la
mente
stategli sempre vicini
date fiducia all'amore il resto è
niente...”
Anche
per questo decisi di seguirlo quando, alcuni anni dopo il circolo di
Bagno a Ripoli si divise e lui scelse di rimanere nella scuola del
capoluogo.
Veramente
avevo pensato di trattenermi in collina, ma quando scesi in direzione
per sottoscrivere la domanda di trasferimento trovai due nuove
segretarie. Era estate e una aveva una camicetta leggera… Mi
accorsi che Marcello era entrato nella stanza solo quando era già
molto vicino, il suo passo aveva la leggerezza di un gatto, sorrideva
seguendo il mio sguardo.
Paolo Scopetani